La sobrietà


Nella camera da letto dei miei genitori, sul comò, per cui davanti allo specchio, un Gesù Bambino dormiente si beava della sua stessa immagine riflessa, quasi assiso.

La sua presenza, misurata sebbene altera, mai un gemito, né un abbozzo di sorriso, rimane per me un mistero.Ritengo fosse per compiacere la nonna, che viveva con noi.

I miei genitori non sono infatuati di fede, non hanno mai manifestato accenni d’estasi; mai m’hanno rimproverato colorando i concetti colle sfumature dello Spirito o spingendosi fino alle tonalità nerastre del peccato.

Son battezzato e cresimato, vivo la mia personale concezione dell’Altissimo e, quindi, non sono stato educato da mangiapreti, ma neppure da bigotti.

Il Gesù Bambino, tornando a Lui, era quasi a grandezza naturale e non so dire quanti anni avesse, benché la slavatura dei colori m’ispirava un secolo di penombra; la pelle, cerulea, era d’un perlaceo pallore. Le labbrucce, irrigidite nella posizione della poppata del lattante, erano si rosa, ma anch’esso appena accennato; pareva che la colorazione stesse lentamente raggiungendo la pelle, infiltrandosi da sotto.

Una cuffietta bianca, orlata di leggero pizzo, nascondeva la chioma, la quale, a giudicare dai due boccoli che solcavano la fronte liscia, uno tagliava l’esilissimo sopracciglio destro, l’altro il sinistro, doveva essere folta.

Anche questi due ricciolini, che temevo fossero di veri capelli, lasciavano fantasticare intorno ad un biondo in fase di formazione, oppure, nell’ipotesi macabra, ad un paglierino ormai passato.

Il Gesù era riposto in una culla ovoidale, sorretta da quattro gambe intarsiate, fini e con temi floreali. Fra le foglioline arricciate, che germogliavano dalle gambette, ristagnavano batuffoli di polvere appena accennati; impossibili da rimuovere, erano forse escrescenze della struttura, segni d’una qualche misterioso metabolismo secolare, più che frutto dell’incuria, data la cura (mai fanatica) con la quale mia madre spolverava il Salvatore.

Le lenzuola che avvolgevano il Cristo infante erano orlate d’un pizzo in miniatura e i bordi della culla, anch’essi, erano sormontati da un bianco e orlato tessuto.

L’Eterno bimbo, infilato in un candido abitino da battesimo, pareva una larva, non fosse per la presenza degli arti superiori, dei quali, ahimè, non ricordo la posizione. Non me ne voglia, ma i vestitini coi quali s’acconciavano un tempo i battezzandi non prevedevano pantaloncini; una sorta di sacco lungo, di modo che le gambine fossero libere di stendersi, conferiva al bimbo una forma tubolare.

Io, che lo guardavo di sottecchi, poiché m’impressionava, temevo d’essere irriguardoso, quando la sua immagine sfuggente rievocava in me quella di Pisellino, il figlio adottivo di Braccio Di Ferro, proprio per com’era abbigliato; ora, quando lo ricordo, noto che sia Braccio Di Ferro che Gesù Bambino esprimono diverse forme d’immortalità e, per entrambi, i rispettivi autori hanno escluso la paternità biologica.

Insomma, mi tocca ammetterlo, ma il Gesù Bambino dormiente m’impauriva, perché l’avevano fatto rassomigliare ad un morto, come la celeberrima mummia di Rosalia Lombardo, a Palermo, per la quale la sorella e la nipote lamentano la scarsa cura durante le riprese del National Geographic, e che tali supplizi l’abbiano rovinata, facendola rassomigliare ad una morta.

Da tempo il Gesù Bambino Dormiente prosegue il suo sonno eterno in uno scatolone, nella cantina dei miei genitori, ma tant’è… Ormai il danno è fatto.

Non reggo più la vista delle culle, che non siano sobrie, ed i bambini, poveri innocenti, li voglio vedere soltanto ben colorati e coloriti.

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Confini

(Foto di Matthew Cox )

Taluni sostengono di vedere l’aldilà, o, per circoscrivere questo “di là”, ammettono di vedere coloro i quali galleggiano nel vuoto privo di connotati fisici, situato fra il “qui” ed il “là”.
E’ una stazione del nostro cammino, pare, nella quale si indugia per un tempo variabile. Financo per l’eternità, in certi casi.
Il tempo al quale alludo è  terreno, non confondiamoci, dobbiamo tradurre in termini intelleggibili delle zone a-spaziali e a-temporali, come la nota stanza di Swedemborg, dalla quale – ritengo – si possa ancora agire sulle leggi fisiche: un classico è giocare con l’interruttore della luce.
Francamente, non vorrei apparire impertinente, ma non provo invidia verso questi veggenti; troppi sono i dubbi che mi instillano.
Premetto che, non vivendo tali incontri, non ho dimestichezza con questi spiriti galleggianti, per cui non ne conosco i tratti salienti.
Intendo dire: l’essere vivente ha delle caratteristiche, dei fattori componenti. Suddividendolo in “macro ingredienti”, azzarderei l’ardire di considerare il carattere come uno di questi, unitamente alle carni, alle forze naturali ed all’Anima.
Ciò non è da poco, seppur vago: una entità qualsiasi che s’approcci al nostro mondo, per capirci, dovrebbe tenere conto che i rapporti sarebbero influenzati e direzionati – inevitabilmente – dal fattore caratteriale. 
Ora, mi domando: queste realtà a me invisibili (ma non invise) mantengono i tratti caratteriali? Io temo di si.
Forse gli eccessi sono stemperati, rotto il legame alle cose terrene. Non c’è motivo per prendersela, insomma, tuttavia nascono sospetti osservando quelle terre bergmaniane, nelle quali la separazione fra il “qui” e dil “là” è sottilissima, ragion per cui i defunti passeggiano nel loro salotto terreno, addensandosi improvvisamente agli occhi dei vivi e, nelle situazioni più paradossali, una volta trapassati e pur rimenendo in quello stato, parlano coi parenti (senza che questi mostrino sbigottimento) per dare disposizioni, dirimere antiche questioni e addolcire storiche tensioni, per poi, senza fare un plissé, adagiarsi comodi e cheti nel feretro e finire riposti dove occhi non giungono e, nuovamente incoerenti, si palesano dopo agli occhi dei figli, fumando la pipa in biblioteca, spaparanzati sulla poltrona.
Il tema è il paradosso, ciò che la logica sensibile proibisce: il morto che appare, il defunto che parla.
In “Fanny e Alexander”, addirittura, spunta la mummia nell‘incredibile ripostiglio in cui vive Ismael, la quale, a contatto con la luce, si volge verso di essa e respira.  
In questa atmosfera stridente, invero, il senso degli avvenimenti è chiaro: il fil rouge è il passato. Che questi errabondi non riescano a liberarsene?
Ragion per cui, se il legame è (gioco-forza) il passato, nell’atto del manifestarsi ai vivi, il trapassato indossa temporaneamente i suoi vecchi abiti caratteriali?
Questo non posso saperlo, ahimè, ma ritengo che prestando un poco di attenzione alle dinamiche della dipartita degli uomini, ed agli istanti subito successivi, scorgeremmo talvolta un rapporto di simpatia fra gli elementi in gioco; segno che il defunto stazionerà nella zona di confine.
L’ammiraglio Nelson, per esempio, fulminato da un francese fortunato, che lo beccò da nave a nave, venne immerso in un barile di Brandy, per conservarlo fino al patrio suolo. Io scommetto che qualcuno, in seguito, lo vide e ci parlò. Magari, estraendolo dal barile, lui si lamentò della qualità del Brandy e, ironicamente, osservò che, morto per morto, almeno non finì conservato nel cognac (ancora non sapeva di finire in una cassa di legno francese, il che dimostra che questi signori non vedono il futuro).
Ecco: io tutta questa confusione fra vita e morte, un poco la temo. Incrina la più certa delle certezze. Ci vedremo a suo tempo, non ora.
    

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L’uomo spento

Per molti anni non ho mai assistito di persona al fenomeno, ne ho solo sentito parlare.  
Rari racconti di conoscenti, qualche foto macabra sui quotidiani, notizie ai telegiornali con inquadrature rapide ed insipide, per sorvolare sul raccapriccio, soffermandosi sul dolore dei vivi. 
Tre anni fa, ricordo, dei turisti scomparvero nel lago di Como.
Quando i sommozzatori ritrovarono l’imbarcazione (i corpi imboccarono rotte misteriose nella crosta terrestre) l’aspetto della falla permise di affermare che a bordo fosse presente uno di quei soggetti, senza alcun dubbio.
Dato che l’eccitazione, lo spavento, in generale il trauma, possono innescare l’eruzione umana, è probabile che nei campi di battaglia e nei tetri luoghi devastati da attentati, qualcuno dimostri la propria rovente capacità, ma con quel che resta dopo simili accadimenti, è difficoltoso risalire alla traccia d’un rigurgito ferroso; inoltre, non desta interesse, in quei contesti.
Nessuno ha mai attribuito troppa importanza al pericolo d’incontrare una di queste chimere, così, forse, son da definire; sono rari ed è infrequente una loro eruzione. I danni provocati, seppur potenzialmente gravi, sono quindi limitati.
La fisiogeologia, scienza novella, ci insegna che la più parte degli esseri umani sono spenti; aggettivo che sopporta una grigia nomea, riferito all’uomo, ma in questo caso occorrerebbe tratteggiare una diversa accezione.
Fino a diversa dimostrazione, le differenze fra uomini e vulcani sono evidenti, a prescindere dal ricorso al vulcano nel confezionare ritrite figure retoriche.
L’uomo, rispetto al vulcano, è dotato di intelletto, ragion per cui lo stato di quiete (dell’uomo spento) può anche essere raggiunto scientemente, come ogni obiettivo terreno. 
Come noto, taluni vengono al mondo investiti d’un talento; anche la quiete lo è. Ad oggi non c’è prova provata di una qualche ereditarietà della quiete; molti uomini eruttivi ne sono privi, ma in alcuni di essi è infuso il dono dell’ostinazione, la più grande delle virtù geologiche, esclusa dalle virtù teologali, forse per sovrapposizione con la fede. 
Questi, allora, ricorrendo alle tecniche più disparate, come sempre tutte riducibili ad una manciata di filosofie (sempre le stesse), cambiate d’abito, riescono a sedare, a dimenticare per sempre questa propensione.
Pare che la psicoterapia funzioni, come lo yoga e così pure l’ipnosi ed il training autogeno. Si racconta che diversi seguaci di Hubbard non eruttino, grazie a ciò che vien definito dai detrattori un “lavaggio del cervello”.
Risultano utili le cure psichiatriche; nondimeno si considerino gli effetti collaterali e indesiderati. 
Vi sono casi, per confermare quanto esposto (l’eccezione), per cui la quiete è risultato di smottamenti interni, di repentine e irriducibili variazioni della cascata ormonale, per cui l’ipofisi innesca una reazione a catena, che non culmina più nell’eruzione; ciò accade di punto in bianco, e la causa non la si conosce ancora, a meno che non sia evidente una precisa conformazione della diffusa, e nota, calcificazione ghiandolare. 
I test medici confermano questo collegamento. 
Pare, inoltre, che delle disfunzioni pancreatiche apportino questo vantaggio, che allora viene inciso sul diritto della medaglia di pericolose patologie. 
Come si usa commentare: “Dio dà, Dio toglie!”…
Tornando a me: alla mia veneranda età, esattamente l’anno scorso, finalmente incontrai ben due uomini di tal fatta.
In un ristorante a Eilat, in Israele, finalmente vidi; ad un tavolo (fortunatamente lontano da me), dove sedevano quattro signori molto distinti, un lieve mormorio s’è andato gonfiando, s’è fatto turbolento, come un borborigmo o una valanga, e da un nulla è nato un alterco. L’argomento lo ignoro: si discuteva in ebraico. Sta di fatto che, fra i quattro commensali, ve ne fosse uno esplosivo. Nessuno aveva colto il pericolo; in viso era rubizzo ed un poco avvampato, ma per via del vino, penso. 
Ha picchiato i pugni sul tavolo, insieme, per due volte, ha fatto cadere un bicchiere pieno, una forchetta ha roteato a mezzaria per un secondo, poi il tizio è esploso. 
Se qualcuno ricordasse “Il senso della vita”,il film, potrebbe ben immaginare la scena. 
La magma (nessuno mi ha spiegato la ragione, ma il magma umano si declina al femminile, sospetto che sia un orpello sistematico) è schizzata a diversi metri, lasciando ben dieci feriti, di varia gravità, e sei morti. Uno schizzo ha lambito la mia scarpa; non ho perso l’alluce per un soffio.
Una scena orrenda: l’effetto della magma sull’uomo è paragonabile a quello di un ferro rovente nel burro. In un istante i corpi si consumano, s’aprono immonde piaghe, squarci insanabili, si assiste alla fuoriuscita di viscere, ad emorragie zampillanti e inarrestabili, e sorvolo sull’odore nauseabondo, degno delle pire di Varanasi. 
Mi duole chiosare, ma è curioso che abbia assistito a questo truce avvenimento proprio in quelle terre, già funestate dall’odio. 
Mi risulta che il ristorante abbia cessato l’attività definitivamente, a causa degli ingenti danni causati dall’esplosione dello sfortunato cliente.
Due mesi dopo, il destino volle istruirmi a dovere, per cui accadde ad un mio caro amico, del quale – come ben si può comprendere – non farò il nome. 
Da tempo annusavo la sua effusività, ma non ve n’era la certezza. Diverse volte gli consigliai di sottoporsi ad una radiografia, per verificare almeno la presenza della calcificazione ipofisaria, ma il tapino s’è fatto una concezione tutta sua (e limitata) della prevenzione, che – anzitutto – può riguardare solo sé stessi, e non va praticata per scongiurare danni al prossimo. Inoltre, e forse è ancor più grave, la prevenzione consiste unicamente nel praticare dello sport e nell’ingozzarsi di agrumi, anche fuori stagione, come suini raffinati e viziati.
Dunque: una sera l’amico e sua madre s’infilano (in mia presenza) in una discussione senza capo né coda, intorno a futili argomenti. Il tema riguardava l’importanza di ricoverare sempre l’auto nel box, una volta rientrati a casa. Il mio amico, che non sempre s’attiene alle regole della casa, sosteneva che, specialmente a notte fonda, tenendo conto che il cortile è protetto da un cancello e da muri di cinta, riteneva scocciante, nonché inutile e rumoroso, perdere del tempo nella complessa operazione. 
La madre, naturalmente, gli dava contro. Insomma: uno scambio di idee di assoluta sterilità, accompagnato da miei continui sbadigli, lubrificati dall’abbondante vino bevuto e dal tono dei due. Era sommesso; nessuno alzò la voce, ma entrambi sostenendo, senza indretreggiare, le proprie ragioni. 
Ad un tratto, trascorsa una buona mezzora ad argomentare intorno al nulla familiare, dopo che alla madre s’era formata una ruga verticale fra le sopracciglia (segno di irritazione), il mio amico ha esalato una sbuffata di fumo dalla bocca. L’aroma, accompagnato dal tipico sfrigolio, mi suggerì immediatamente si trattava precisamente di vapore.
A bocca spalancata, puntandosi al bordo del tavolo, egli prontamente si scostò all’indietro, rimanendo seduto. Si piegò in avanti e vomitò tre boccate di magma.
Grazie alla sua rapidità non si fece del male. 
L’orchestra della Natura è unica nella sua perfezione: questi indivudui sviluppano una proteina, recentemente identificata, che protegge le mucose interne, al contrario degli altri tessuti. Poteva quindi anche uccidersi, ma solo eruttandosi addosso. Per questo gli “esplosivi” sono più temibili.
E’ in atto una gara, a suon d’investimenti, per riuscire a sintetizzare la proteina: in futuro potremmo passeggiare noncuranti, in ambienti ora proibiti. Potremo tuffarci, forse, persino nel sole.
Questa vicenda si concluse bene; soltanto il pavimento della sala da pranzo (che, per ironia della sorte, è in cotto) venne danneggiato dalla magma.  
In genere l’epilogo di certi racconti è macabro. Tutti i resoconti di uomini effusivi, riportati dai mass media, terminano con l’elenco delle tremende mutilazioni subite e, non di rado, con la morte dell’uomo-vulcano.
Questo mio caro amico, ripresosi dal trauma, si sottopose ad una serie di esami; non risultò visibile la calcificazione dell’ipofisi che accompagna la quiete, nessun disturbo pancreatico; i medici dovettero solo annotare un altro caso misterioso, relativo a questa curiosa e orripilante proprietà degli esseri umani.
La pista genetica, però, di lì a poco riprese quota, per via della scoperta d’una famiglia composta da quattordici persone (i genitori, con dodici figli, di cui otto maschi), tutte effusive. Stavano in Anatolia.
Le riprese filmate hanno mostrato al mondo il padre che, con grande sagacia, rigurguta in diversi stampi il suo infuocato vomito, realizzando oggetti di vario genere, come i portaceneri colati al momento durante le eruzioni dell’Etna.
Ad oggi, mentre racconto, laboratori specializzati stanno analizzando incessantemente profili genetici, per scoprire l’arcano.
Uno storico tedesco, recentemente, ha pubblicato un saggio, a sostegno della sua tesi: i draghi, in realtà, erano uomini eruttivi.
  

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Non voltarti mai

Al grido “All’assalto!” Giulio Orsini fu impercettibilmente più lento di molti altri ed ebbe il tempo di vedere i soldati (fra di essi dei lesti patrioti) maciullati dalle mitraglie e morenti, sanguinanti e  aggrovigliati nel filo spinato a difesa della trincea opposta.
Pochi istanti prima, allocando la baionetta, incrociò lo sguardo del compagno di sventura al suo fianco e questi vide riflessa nello specchio dell’iride di Giulio la lieve foschia che prelude alla fine.
Per farsi coraggio gli disse: “Vai, vai e non voltarti mai!”. Lo disse in italiano, con marcato accento veneto, ed il ronzio nelle orecchie del compagno, effetto delle esplosioni d’artiglieria, fece rassomigliare l’incoraggiamento ad un miagolio.
Giulio Orsini si voltò comunque, impazzito dalla paura, ma non ebbe il tempo di compiere un passo verso la propria trincea che notò distintamente la fiammata prodotta dalla pistola, il cui proiettile gli trapassò il cuore, ma non poté confortare l’ufficiale assassino, il quale si rammaricò del gesto  istintivo, poiché un’esecuzione davanti alle truppe – a dimostrazione che nemici e disertori sono della stessa pasta – avrebbe avuto maggior effetto.
Nella frazione di tempo fra la fiammata e la morte, Guido Orsini visse un’esperienza che, in genere, accompagna anche l’estasi; il tempo perde i connotati o forse evapora, lasciando respirare gli eventi.
Ricordò infatti con dovizia di particolari il brutto tiro giocatogli tre volte dalla bella Irene, prima di partire per il fronte.
Per tre sere consecutive, seminando genitori e guardoni, si erano appartati in collina fra le robinie, per fare l’amore.
Osservavano in piedi la piana e lei, dietro di lui, lo abbracciava. Non appena il sole scompariva sotto l’orizzonte, Irene gli copriva gli occhi con le mani. Dopo un paio di minuti toglieva le mani e gli sussurrava “Non voltarti mai…”, lo diceva in italiano, ma con un marcato accento veneto.
Indietreggiava poi d’un passo, per non aver contatto fisico, sussurrando ancora: “Non voltarti mai…”…
La prima sera Giulio s’imbronciò dalla delusione. Il giorno seguente esclamò: “Seeee… così scapi ancora!”;  lo disse tentando un improbabile italiano, necessario per rimarcare concetti importanti.
La terza sera gridò nella boscaglia: “Vaca putanaaaa!”.
Sicché  per tre volte la bella Irene si volatilizzò,  invisibile e silenziosa come un barbagianni e Giulio partì per la prima linea, con l’insopportabile peso di dover morire quasi da uomo.
La ragazza, dal canto suo,  non era crudele ma – come capita – più esperta  in questioni di cuore ed era ben conscia del fatto che facendo l’amore ci s’innamori del tutto.
Ancor più grave, se una di quelle sere avesse fatto l’amore, forse si sarebbe ritrovata con un figlio a carico e senza marito; un giorno il bimbo le avrebbe domandato chi mai fosse stato il padre. Lei, probabilmente, avrebbe risposto “ma cosa te ne importa, non voltarti mai…”, lo avrebbe detto in dialetto, perché era un concetto da tener leggero, perché non si erano sposati e non era bene, confidando nel potere ammaliante della pearà che sobbolliva in cucina.
Il bimbo, poi, voltandosi comunque, avrebbe scoperto l’identità del padre e si sarebbe voltato alla visita di leva ritrovandosi come l’unico della sua generazione e così infinite volte, tante sono le occasioni che riserva la vita per farlo, come infinite volte lo fece Giulio Orsini nella sua breve esistenza.
Anche la bella Irene, del resto, si voltò infinite volte nella vita, sfilando davanti al monumento ai caduti, tirando dritto verso il cimitero, voltandosi leggendo e rileggendo il nome di Giulio Orsini; lo rilesse sempre con accento veneto, per carezzare il ricordo, sempre, allungando verso il cimitero, si sarebbe poi voltata sussurrando “…mona!”.  
In gioventù ebbe la lungimiranza ed il coraggio di ascoltarsi: le guerre per i poveri non terminano con la firma di un armistizio.
Un vecchio raccontino: lo dedico a mia nonna Giacomina Formentelli ed a sua sorella Maria, che non furono come Irene (io non sarei qui, probabilmente), ma ne pagarono le conseguenze.
Dedicato a mio padre, cresciuto senza papà, morto nella mattanza della ritirata dal fronte russo.
Dedicato a suo padre, tritato dagli ingranaggi degli eventi storici.
Dedicato a tutti, giovani, vecchi e scomparsi, che concepiscono la “Liberazione Permanente”.

La Samarcanda di un gitano

Nawaf e Ibrahim si introdussero nella villa prescelta in pieno giorno. Il proprietario era uscito all’alba, non sarebbe tornato che dopo il tramonto; i cani, tre fiere da circo con la folta coda arricciata (visti di profilo ricordavano un bassorilievo) erano stati rifocillati la mattina, ma, per non finire nelle loro fauci, se ne accattivarono riconoscenza e fedeltà eterna, con brandelli di carne succosa.

Da ladruncoli diplomati, una volta all’interno, cercarono subito la camera da letto, al piano di sopra, certi che i cassettoni dell’immancabile comò celassero dei contanti e gioielli.
La preminenza della banalità, nell’uomo, li premiò: in camera da letto dormiva un enorme comò in finta radica, con pacchiane zampe leonine intarsiate. 
Spalancarono avidamente il cassettone più alto e, nell’angolo in fondo a destra, trovarono una scatolina cubica, pregiata, ricoperta di velluto porpora, con serratura dorata. Ibrahim sospirò di piacere, carezzandola, ma Nawaf lo scostò grugnendo il disappunto. Aprì la scatola; il coperchio, incardinato, si alzò lentamente, ma senza scatti.
Ad entrambi si fermò cuore, quando videro il contenuto. Fecero un balzo indietro, socchiudendo gli occhi, come accecati si ripararono con le braccia: sul piccolo sacello di seta imbottita riposava un bulboso occhio di vetro, che li fissava, con fredda attenzione.
L’iride appariva d’un indaco raro; il colore che talvolta è disciolto nel mare aperto.
Erano raggelati. Nawaf si riprese per primo, scosse il fratello e se la diede a gambe. Senza scambiarsi parola, presero a correre a rotta di collo giù dalle scale. Uscirono dalla porta scassinata, di corsa traversarono il giardino, coi cani alle costole, che, com’è noto, giocherelloni, rincorrono sempre chi li nutre. 
Nawaf era uno spilungone, dinoccolato, con una folta capigliatura raccolta in una coda, il cui colore suggeriva d’essere biondo, ma permanendo nella gamma degl’indefiniti, a causa delle continue tinte artigianali.
Questa paglia stopposa prosperava, adombrando un viso abbrustolito naturalmente. Al momento del parto, una volta fuoriuscita la testa, sua madre spinse ancora per due ore; lui pareva non finire più. Le mammane presenti argomentarono a lungo, per concludere che il piccolo fosse arrotolato nella placenta; una sosteneva la teoria desueta dell’organetto. Comunque fosse andata, il piccolo, in utero, giaceva certamente compresso, per poi gonfiarsi ed espandersi in un respiro vitale, vedendo la luce.
Altre teorie per un siffatto gigante, non ce n’era e non ce n’è, riferendoci a verità scientifiche. Le donne presenti, indottrinate alle verità empiriche, si voltarono tutte verso il marito, il quale, all’apparenza, avrebbe dovuto trasmettere alla genìa caratteri affatto diversi.
Vincendo l’imbarazzo generale, il padre lo sollevò trionfante, chiamandolo Nawaf, l’alto.
Ibrahim, di due anni più giovane, era l’opposto. Di bassa statura (la metà del fratellone), con capelli ricci, corti e corvini, venne al mondo in un minuto.
Ricordava, appena nato, il padre defunto due mesi addietro. Anche il colorito era quello, da forte anemico, e di lui prese il nome; in memoria, quindi, e per propiziare la carriera riproduttiva d’un roditore, il cui padre interruppe per arbitraria premorienza.
Le donne, in mancanza di argomenti piccanti, si limitarono a constatare la nascita del piccolo.
Quando Ibrahim iniziò a trotterellare, un passo di Nawaf, lungagnone, ne valeva cinque dei suoi; per stare al pari, sviluppò nella crescita un’animale rapidità. I suoi occhietti, anch’essi erano animali. Piccoli e neri, ricordavano palle d’archibugio.
Gli occhi di Nawaf, come tutto di lui, erano lunghi, quasi mostruosi, ravvicinati al punto che, guardandolo distrattamente, appariva come un ciclope, con un solo occhio, bislungo, poggiato sulla radice del naso, sormontato dall’unico ed arruffato sopracciglio, che pareva una siepe.
La mattina seguente al tentato furto, Ibrahim era disidratato. La madre dovette strizzare il cuscino; aveva perso tutti i liquidi salivando.
Nawaf si svegliò con una forte infiammazione all’occhio destro. Una ragnatela di capillari percorreva il globo oculare, uno scolo purulento era raggrumato sul bordo delle palpebre.  Lo scolo odorava di cipolla.
Ibrahim se la cavò bevendo due litri d’una tisana ripugnante, ma per Nawaf la madre si mise a trafficare al camino. In mezzora preparò un decotto solforoso, da applicare come cataplasma.
Zeina, farcendo la tasca di panno con la fumigante pappetta, imprecò per non aver più polvere di mummia e fece il gesto di carezzare il ritratto del suocero, appeso al muro peloso, uomo d’altri tempi e d’altra mescola, gitano purosangue, che s’introdusse addirittura in un museo, si narrava, per trafugarne una intera, in barba ai decadenti aristocratici che si baloccarono prima di lui, frugando nelle tombe. Nell’eccitazione dinnanzi a tante mummie, scappando con quella di un presunto nobile,  strappò via la testa da una di gatto, tentando di prenderla intera. Da allora la testa rinsecchita, mantenendo la naturale espressione sorniona, svettava in cima al credenzone, non avendo proprietà curative per l’uomo e, dietro imposizione della Natura, che mai ammette repliche, per vigilare sull’esercito di topi famelici in agguato.
L’ultima oncia della preziosa polvere venne inutilmente usata per cercar di salvare il marito morente, facendogliela bere in una pinta d’acqua benedetta, alla moda degl’inglesi.
Il giorno seguente l’infiammazione s’era incagnita e i due fratelli, mentre Zeina riceveva malati di jattura, sgattaiolarono fino in centro città, per avere l’aiuto rassicurante del medico.
Nawaf entrò nell’ambulatorio, freddo e semivuoto. Una voce proveniente dal nulla lo invitò a sedersi.
“Guardi a destra!”, aggiunse perentoria la voce.
“Non deve ruotare il capo, volga solo lo sguardo!”, continuò stizzita, per poi sussurrare: “…Imbecilli…”.
Il dottore spuntò da dietro il separé, posto a sinistra della scrivania, e si sedette di fronte a Nawaf, il quale seguitava a fissare verso destra.
Dopo qualche secondo d’osservazione, il medico aprì il cassetto più basso della scrivania e ne trasse una confezione bluastra di pomata .
“Tenga!” disse a Nawaf, porgendogli il rimedio. “Due volte al giorno sull’occhio, mattina e sera!”.
Nawaf si voltò, allungando la mano; i due si guardarono, entrambi palesando stupore. Vi era una inaspettata somiglianza fra i due; i lineamenti erano gli stessi. Carnagione scura e viso lungo, mascella pronunciata, stesso taglio degli occhi, sebbene quelli del medico fossero più proporzionati e di un raro indaco intenso.
Nawaf, spaventato, si alzò e, senza salutare, strappò di mano la medicina, correndo via.
Il medico non fece troppo caso alla scortesia del paziente, non lo inseguì per l’onorario e nemmeno valutò di chiamare le guardie. Conosceva gli zotici della suburra, inoltre lo stupore di vederlo nel suo studio coprì l’irritazione; aprì il secondo cassetto della scrivania, scostò un po’ di oggetti, fra cui una scatola rosso porpora con serratura dorata, e prese il suo pince nez.
Il terzo giorno dopo il furto, l’occhio di Nawaf era tale e quale. Zeina mise alle strette il figlio, che confessò l’incontro con l’occhio scrutatore. La madre, senza esitazione alcuna, preparò sul tavolo un piattino pieno d’olio e una candela. Accese incenso a grani e, mentre in una mano teneva il piattino, nell’altra sgranava un rosario di legno, recitando preci incomprensibili.
Girò intorno al figlio, seduto e inebetito, settantasette volte, senza mai interrompere la nenia. Posò il piattino sul tavolo, fece sgocciolare nell’olio sette gocce di cera della candela e si sedette, osservando.
La cera si era agglomerata, assumendo una forma sensata.
A Zeina parve di riconoscere la sagoma della Notre-Dame de la Garde di Marsiglia.
Senza pronunciarsi uscì di casa, lasciando Nawaf nell’assopimento indotto dalla cantilena liturgica.
Dopo circa un’ora Zeina rientrò. La candela si era consumata del tutto e Nawaf era nella stessa posizione nella quale lo sveva lasciato. I palmi delle mani poggiati sulle gambe, la testa leggermente reclinata all’indietro, la bocca spalancata e gli occhi socchiusi; la piatta litania del rito materno ristagnava nell’aria e Ibrahim russava senza vergogna, nella camera da letto.
“Figlio mio” attaccò Zeina “è un malocchio potente, io non posso aiutarti”.
Ricurva sul figlio seduto, seguitò a sussurrare: “la cera ha mostrato Marsiglia, tutte le madri sono concordi, devi andare da Intissar. Lei saprà liberarti. Domani partirete”.
In quei giorni Marsiglia pareva un formicaio sventrato. I due vi arrivarono nel tardo pomeriggio e le strade pullulavano di genti d’ogni foggia e provenienza. Urla e risate, schiamazzi, ubriachi ad ogni angolo. Capannelli di gitani, come coaguli, rallentavano il traffico della città. L’ebbrezza si respirava.
Era imminente la Festa di Santa Sarah, in una vicina località, e Marsiglia straripava di gente di passaggio; i due fratelli, malgrado le origini gitane, ignoravano l’importante avvenimento. Erano dei semplici; così usano fregiarsi fra loro gli ignoranti, da sempre, quando fra di essi corre buon sangue.
La semplicità, come la Natura, non ammette repliche; la baldoria va onorata.
Quando il sole calò, la stessa sera, l’occhio di Nawaf mostrava segni di miglioramento, la pomata del medico produceva lentamente effetti, ma la fermezza del vino non gli permetteva di veder meglio. 
Ciondolando per la città, già dimentichi della maga Intissar, catturati dalla fiumana sfociarono in una piazzetta stracolma di debosciati, dove un’orchestrina di fiati sconquassava i timpani e una decina di donne, al centro, erano rapite da un ballo indiavolato, ruotando forsennatamente, malgrado la calca permettesse a malapena, agli altri presenti, di dilatare il torace per respirare.
Cercando d’imboccare la via d’uscita, infilandosi fra le persone spingendo con forza, Nawaf si trovò petto contro petto con un uomo già incontrato.
Una benda nera gli copriva i capelli e l’occhio destro.
Nawaf riconobbe subito il medico. Il terrore sovrastò la confusione e lo stordimento, sciacquando via il rosso rubino del vino, che gl’impediva di ragionare.
Il medico sorrise, s’avvicinò all’orecchio del povero Nawaf e gli urlò, per farsi sentire nel fracasso generale: “Oggi non sono stupito di vederti; lo ero, giorni fa, nel mio studio. Il tuo appuntamento è per oggi, qui a Marsiglia.”
Anche il semplice Nawaf comprese d’essere al traguardo finale.
“Tu sei la morte, perché mi hai visitato?” domandò.
Il medico, pur compresso nella calca, riuscì a fare spallucce.
“E’ il mio mestiere, qualcosa devo pur fare, per mischiarmi con voi…”, gli rispose beffardo.
Ibrahim era poco distante, cercava di avvicinarsi, la corrente della ressa lo aveva sospinto in un’altra direzione.
Quando, allungandosi, raggiunse la mano di Nawaf, questi era contratto dal dolore: il coltello del medico, guidato da mano sapiente, aveva tagliato di netto l’intestino e, risalendo, s’era infilato nella milza. Nawaf si lasciò andare, ma non cadde subito. Il medico si era allontanato, ma altre persone, come tasselli inseriti a pressione, avevano colmato il vuoto, sostenendo il morente.
Nawaf se ne andò in pochi minuti, il chiasso della piazza si fece soffuso e poi sparì, risucchiato da un punto sospeso nel vuoto. Lontana, la risacca lo cullava verso il mare. Il padre lo attendeva, in un ambiente privo di spazio, rischiarato da una luce neutra e senza fonte.
“Vieni Nawaf…”, gli sussurrò tendendogli le mani.
“Qui nessun padre uccide il proprio figlio…”.
Nawaf lo seguì, accompagnato dalla risacca e dalla sensazione, che via via si stemperava nell’incolore mondo tutt’intorno, di non aver compreso le parole del padre.   
Il giorno seguente, il medico trovò fuori casa, ad attenderlo, Zeina.
Il medico si guardò intorno; nessuno li vedeva.
La fece entrare, ma la bloccò dopo due passi: “Hai portato i soldi?”.
Zeina s’infilò la mano in mezzo ai prosperosi seni, estrasse un rotolo di banconote e gliele diede.
Lui contò le banconote, poi, sprezzante, le disse: “Quei cani mi hanno rubato l’occhio di vetro! Dovrei alzare il prezzo pattuito, per ricompramelo, ma ora vattene, sparisci!”.
Uscì prima il medico, per verificare che la strada fosse sgombra, poi Zeina se ne andò, accompagnata dal latrare dei cani; il padrone li teneva a bada con un bastone.
Ibrahim la attendeva a casa. Gli occhi umidi e gonfi, infiammati dalla salinità del fiume di lacrime versate; dinnanzi a lui, sul tavolo, l’occhio di vetro indaco.
Il medico, nell’ambulatorio, aprì il cassetto e la scatola rossa, che conteneva un secondo occhio di vetro, dall’iride indaco.  Gli doleva usarlo, era il più recente dei due. 
“Costano più dell’oro…” commentò ad alta voce.
Zeina prese l’occhio e la testa di gatto, staccò la mandibola, facendo attenzione a non sbriciolare la mummia, mise l’occhio nella bocca del gatto e ricompose la testa legando la mandibola strappata, per tenere unito il macabro oggetto, con del nastro nero.
Dispose candele nere tutt’intorno, accese incensi e attaccò un piatto bisbigliare, intercalando momenti d’esaltazione e grida.
Dopo una settimana di quotidiano rituale, la salute del medico iniziò a vacillare. Dovette rinunciare all’occhio di vetro e medicare la cavità oculare tutti i giorni, più volte, per scongiurare un’infezione incipiente.
Dopo un mese spirò. L’infezione si era fatta strada, la setticemia aveva compiuto il proprio dovere.
Mentre il medico riceveva degna sepoltura, Ibrahim si introdusse nuovamente in villa e rubò alcuni oggetti preziosi; vendendoli si sarebbero rifatti del compenso dato al medico, per uccidere il fratello, suo figlio illegittimo.
Lo spirito del padre di Ibrahim, suo omonimo, secondo Zeina, abbandonò finalmente la loro dimora.

I nostri astri

La prova indubitabile che l’uomo si lasci corrodere l’anima dalla malinconia, è il costume di appropriarsi degli astri e di cantare languendo la bellezza dei propri.
La stessa pessima consuetudine investe gli Dei, che difatti, nell’antichità, coincidevano con gli astri.
Tuttavia, la personalizzazione moderna di Dio mi risulta più digeribile; Dio non è visibile e non urla ai quattro venti il proprio sentire, per cui le rappresentazioni della divinità variano di cultura in cultura, dandoci almeno l’illusione d’avere riservato un nume.
Gli astri son quelli, purtroppo.
Siano essi masse ignee turbinanti o costituiti di fredda roccia, sono i medesimi che illuminano e picchiettano i cieli, benché gli emisferi presentino delle differenze.
Ciò nonostante secondo certuni, il sole migliore è quello dei propri luoghi; dello stesso campanilismo gode la luna.
In certi casi, la superiorità è innegabile; per esempio, quando per un gustoso effetto ottico, il sole appare molto più grande di quanto non sia, all’orizzonte, oppure quando precipita nel mare rapidissimo, gettando le terre equatoriali nel buio, con impressionante rapidità, come se cedesse il giunto che – dalla Genesi –  tiene l’astro agganciato al meccanismo del sistema solare, null’altro che una gigantesca sfera armillare progettata e realizzata dal Demiurgo, che seguì un ovvio principio di Necessità.
Sublime, il più sublime, è quel sole che genera il mitico raggio verde, visto da pochi europei; Rohmer forse lo vide, ma non ce lo mostrò.
Tali giudizi sono viscerali, pertanto comprensibili, non ugualmente condivisibili, basti pensare al sole di Napoli, che splenderà anche successivamente alla fine del sistema solare.
Il sole del quale ci si fa vanto, non brucia. I pescatori dai volti arati e cotti, i contadini arricciati su sé stessi come foglie secche, assumono tali fogge per le fatiche del loro duro lavoro. Lo star ricurvi, il sale che circonda e penetra; queste sono le cause dell’invecchiamento, il proprio sole è foriero di Vita, e lo è persino l’astro dei luoghi più tristi.
Il sole dei caselli autostradali, diafano e disgustato alle porte delle città, che strizza gli occhi per gettare uno sguardo attraverso la coltre urticante di smog, è ricordato con nostalgia dai vecchi casellanti.
Penso che un vecchio indù possa languire al pensiero del sole di Calcutta, laddove – in realtà – l’astro dovrebbe sostare poco, fosse avveduto, evitando di scaldare l’atmosfera già velenosa, racchiusa sotto la cappa grigia che cinge la città.
La luna gode delle stesse attenzioni.
E’ rossa, rosa, gialla, perlacea, abbacinante, non per sua proprietà contingente, ma in quanto “nostra” e quindi caratteristica.
Per il caro Caetano Veloso, la luna de Sao Jorge è azzurra verdeggiante, è coda di pavone, ma il verde manca nello slavato arcobaleno lunare.
La luna di Istanbul è stanziale, come la metafisica, non si prende mai riposo. Cala dietro l’orizzonte, ma il suo giaciglio è sempre allo stesso indirizzo.
La propria luna, come il sole, non può nuocere. Le maree solide, che premono il cervello contro la scatola cranica, quando la fase è piena, non sono mai state misurate, se non per i continenti.
Io ed una mia storica compagna, anni fa, osservando la luna a centinaia di chilometri di distanza, col mare a separarci, spietato e consustanziale allo spazio, sentimmo entrambi un brivido correrci lungo la colonna vertebrale, dall’atlante alla punta del coccige, come se la forza Kundalini tornasse a dormire, senza averne mai avvertito il risveglio, peraltro.
Sembrò che i nostri sguardi rimbalzassero sul pianeta, raggiungendo l’altro, lontano.
Sospettammo, allora, che la luna fosse la stessa.

 
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Piazza Bastreri

Ai primi di giugno, la mattina presto, a Porto Venere si mostrano solo i gatti.
Piazza Bastreri è parzialmente all’ombra. 
Una ventina di gatti variamente colorati, svaccati con piglio imperiale sul lastricato, occupano la fetta di piazza assolata.
L’ultima spanna di coda, a mo’ di serpente brillo, imita il movimento del nostro dito indice nel gesto del “no”. 
Gli etologi ne danno una spiegazione precisa, emozionale.
Ho osservato questo dimenar di coda in molti frangenti; è un incedere da tergicristallo, ma che non si innesca per la presenza ticchettante di pioggia o di mosche, per le quali finalità (m‘arrovello anche per altri ditteri) ho archiviato finalmente gli elogi dei greci edall’Altissimo attendo chiarimenti. 
Il pendolare della coda non è mai inopportuno e andrebbe sempre contestualizzato; per esempio, quando il gatto si abbandona su di una scrivania o uno scrittoio e, con la soddisfazione che riluce dal pelo, con la coda si mette a tramenare gli oggetti,  prima di punirlo sarebbe saggio cercare fra il contenuto sparso del portapenne ribaltato. 
Ricompaiono piccoli oggetti smarriti, oppure altri abbandonati sul fondo si riscoprono utili, grazie ad una nuova prospettiva d’osservazione.
Il gatto, nella fattispecie, è investito del potere di spezzare la bonaccia del tempo; in genere, infatti, le bolle di tempo relativo (nel mio esempio è più lento, ma vi sono zone percorse da correnti più rapide) s’annidano in spazi sottratti alla vista. 
Non dimentichiamo che le zone vietate al gatto patiscono il rallentamento. Vi è un altro divenire; per questa ragione fortunosa il solaio è il regno dei topi. Il solaio è il luogo della lentezza per eccellenza e l’unica manifestazione di altra velocità  è il trafficare del topo.
Il movimento caudale, allora, è anche un messaggio alla noia; inutile cercar di ghermire prede feline.  
La prova è anche nell’immagine di Piazza Bastreri: un essere ontologicamente affrancato dal concetto di “impegno” (se fosse umano sarebbe considerato un autentico perdigiorno), mollemente adagiato al sole, non contempla il tempo della noia e, dovesse mai imbattersi in luoghi stagnanti, per sua natura potrebbe generare piccoli uragani, circoscritti ma efficaci, mulinelli che rimettono in circolo il tempo o forse l’impasto di tempo ed energie sconosciute, meglio rappresentato dal Qi dei cinesi. 
Tornando alla piazza, poi arrivò il marinaio, sozzo già a quell’ora.
Salimmo sul gozzo, puntando Palmaria, davanti a noi. 
Una donnina scalpicciò in piazza, mentre il gozzo s’allontanava; i gatti si sparpagliarono in un baleno fra i vicoli, fuggendo dall‘ipotetica minaccia. 
La donnina lasciò un cartoccio di avanzi.
   

Il suicidio delle statue

Il giorno in cui le statue del Brembi si animarono, il parroco scampanò fino a piagarsi i palmi delle mani. Lo fece di persona, avendo fiducia nel solo suo fervore, ma spedì il sacrestano, che obbedì seppur pervaso dal terrore, a convocare in chiesa i fedeli per un rosario ad oltranza, fino alla cacciata del male. Tempo dopo, quando tornò a sonnecchiare in paese una pace ispida, il Parroco iniziò a trattare quotidianamente le piaghe con balsami d’oriente, per conservarle vive, spacciandole per notevoli stigmate.
Le statue da giardino, tornando a noi, erano radunate sotto una tettoia che poggiava al muro della bottega del Brembi. Accompagnate da un insolito crepitio, suono che non s’addice alla pietra, come se volessero accompagnare la propria resurrezione con innocui petardi per bambini, imboccarono la strada di fronte. Risalendo la salita e, non si sa come, un poco sfregandosi, seguendo la curva a gomito che più su sfilava sul lato sinistro della chiesa,  s’erano poi infilate nel viottolo a destra. Divise in due  file miste, avevano aggirato l’edificio sacro lungo i lati, per sbucare sul sagrato e proseguire lungo la scalinata; venti gradini di pietra, che a piedi scalzi pareva morbida come il velluto, che scendevano nella piazza del paese.
Al centro del sagrato s’ergeva un’imponente San Cristoforo, che visto da lontano pareva un titano, poiché, come da tradizione, portava in spalla il Cristo bambino.
La statua di San Cristoforo seguitava a fissare un punto lontano, da un secolo, indicandolo con l’indice della mano destra, a braccio teso; in luogo del fiume da traversare, di fronte a sé v’era il paese, poi la valletta in cui giaceva la frazione di Odiate.
Nel florido periodo positivista, quando tutto si misurava senza apparente finalità,  dei naturalisti armati di teodolite ed altri ameni aggeggi conclusero che la traiettoria disegnata dall’indice del Santo puntava la roccia al culmine della collina, distante 3 chilometri circa, oltre la frazione.
La nomea di Odiate, grazie ai naturalisti, si rafforzò. Si sparse la voce che il San Cristoforo doveva guadare la frazione, in luogo del fiume. Il senso fu chiarissimo, anche per i più grossolani, l’elementare messaggio simbolico indicava Odiate come l’ostacolo, il pericolo.
Anche io evitavo d’addentrarmi in Odiate. Il nome astioso, le poche case popolate da cinque abitanti irsuti e leggermente curvi, la nebbiolina giallognola che dal torrentello s’alzava e impregnava le campagne… Le rare volte che il mio sangue assaggiò quell’ossigeno, in me si fece largo un risentimento profondo e ingiustificato, repentino e prepotente. A quindici anni, poi,  lessi il Milione. Si narrava, fra l’altro, di un sovrano che comandò ai suoi saggi di studiare uno stato confinante e scoprire le ragioni della violenza innata degli abitanti. I saggi sentenziarono, senza alcuna ombra,  che la terra di quei luoghi spingeva l’uomo alla pazzia. Il sovrano, perfido e spietato, fece trasportare al suo palazzo quella terra assassina, via mare, ricoprendo i pavimenti del palazzo e nascondendo il terreno infetto con sontuosi tappeti.
Il terreno malato innescò una carneficina fra gli invitati al ricevimento, organizzato a corte.
Mi resi conto che Marco Polo narrò d’una sventura pari a quella di Odiate.
Per dare una sintesi, io mi figuravo il vento infilarsi nella valletta di Odiate, incanalarsi lungo il torrentello e trasportare in paese folate d’aria; l’aria che rabbuiava la ragione, l’aria che portava in spalla l’esalazione della terra d’Odiate, mentre il San Cristoforo in spalla teneva il figlio di Dio, andando incontro alle ventate maligne e, confortato dall’Altissimo, le superava.
Le statue del Brembi erano esposte ai venti del male. La bottega era sulla via principale, all’angolo formato con la stradina per Odiate. Venivano prese alle spalle, non avevano speranza d’una esistenza statica e inanimata. La malia delle terre folli, dunque, le imbolsì e le  spinse sul sacrato, dove s’ostinarono a voler scendere la scalinata; molte s’infransero di sotto.
I nani e le Biancaneve, i cerbiatti e le anatre, avendo arti, camminavano e zampettavano con piglio che emanava insondabile sicurezza marziale. Le anfore e le amanita muscaria rotolavano, si strascinavano da sole senza obbedire a legge fisica alcuna. Le piccole grotte, con madonnina connaturata, s’alzavano in volo e procedevano rettilinee; oscillavano come appese ad un filo, come cervi volanti dal volo ubriaco.
Proprio una madonnina ingrottata, paradossalmente, fece l’unica vittima. La vergine volante non si sbriciolò contro il primo ostacolo, ma imbroccò la giusta rotta, galleggiando nel vuoto fra due palazzi della piazza. Svolazzò un paio di chilometri, poi, proprio ad Odiate, uccise uno dei cinque licantropi, entrando nella sala da pranzo, attraverso la finestra spalancata e sfondando il cranio dell’uomo lunatico, mentre divorava selvaggina senza posate.
Fu questo un incidente, senza dubbio, perché le altre statue si prodigarono in uno sterile suicidio di massa. Chi rotolando lungo la scalinata della nota chiesa, chi sbriciolandosi contro la facciata d’un palazzo, chi mettendo un piede in fallo e cadendo dal muricciolo e, infine, chi infilandosi sotto le ruote d’un carro ben carico.
Nulla accadde; non fu un  tentativo d’invasione, nessuna statua mirò al potere. Sembrò soltanto una tremenda dimostrazione di potenza.  
L’ultima statua che rimase, un cerbiatto, cadde urtando con la testa un basso ramo di fico e, coricata sul fianco destro, proseguì imperterrita a trottare, ma senza sortire effetto.
Le zampe anteriore e posteriore destra, a contatto con l’asfalto, dimenandosi incessantemente iniziarono a consumarsi, a sgretolarsi, mentre il cerbiatto girava in cerchio.
Col rumore tipico delle macine arcaiche, le zampe di destra si polverizzarono in una settimana. Quando l’ultima pellicola di zampe si disfece, il cerbiatto si inclinò verso destra, cosicché gli zoccoli trottanti di sinistra ricominciarono l’agonia da sfregamento, facendo girare in tondo la bestia granitica; le zampe rimanenti si consumarono, ma soltanto fino a metà femore, in sei giorni.
In un tale stato d’amputato, il cerbiatto si inclinò verso sinistra e raggiunse una posizione di equilibrio.
La scena non poteva che rinforzare l’ipotesi demoniaca, la forza infera e incontrastabile.
Il cerbiatto era ormai immobilizzato su di un fianco, i moncherini delle zampe e la piccola coda si muovevano senza mai una variazione di tempo; non vi era stanchezza. Chiusero la strada; nessuno si poté avvicinare all’agonica diavoleria. Gendarmi a turno, armati di tutto punto, allontanavano quei pochi e temerari curiosi.
Lo sguardo era fisso, ricordava quello d’un morto, pur mantenendo la sua nauseabonda dolcezza, essendo un simulacro del Brembi, cioè di buona fattura, malgrado tutto. Un gendarme, forse, in uno slancio d’umanità, decise di pitturare le palpebre chiuse.
Dopo cinque mesi e venti giorni, le articolazioni dei moncherini e della coda mostrarono segni di usura. Dopo altri 4 giorni caddero, lasciando la statua in uno stato di enigmatica apnea.
Nessuno poteva capire se avesse ancora un’attività, magari galvanica; perse le parti mobili ritornò apparentemente al suo ruolo di statua.
Venne trasportata nottetempo in città, con un intero battaglione di fanti come scorta; si temeva cadesse in mani sbagliate.
Non se ne seppe più nulla; nessuno domandò. Alcuni, tornando dalla città, raccontarono che nessuna forza venne rilevata dagli scienziati. Non c’era anelito alcuno, né scossa elettrica nel cerbiatto del Brembi.
I licantropi di Odiate, dal carattere schivo e imprevedibile, non figliarono e lasciarono il posto a raffinati borghesotti di città, che cercavano serenità nei pressi del torrentello.
Di quella vicenda insopportabile rimane soltanto una traccia sulla facciata del palazzo di fronte alla chiesa. Una cornice di stucco, ben fatta, racchiude un‘insolita impronta, senza alcuna targa a memoria.
Sembrerebbe l’effetto d’uno sparo a pallettoni, o di una grossa pietra scagliata a due mani; avvicinandosi un poco, l’occhio acuto può intravvedere graffi azzurri e rossi, i colori d‘uno schianto della madonnina.  

Le categorie kantiane

Caffè mattutino. E’ pacifico: il caffè contiene caffeina e favorisce il risveglio. Pare (se ne discute) che favorisca la digestione. Dosi eccessive sono eccitanti. In omeopatia, nel pieno rispetto della grammatica, coffea calma la mente che “galoppa”.
Inoltre: c’è il caffè solubile, una faccenda chimica, squisitamente chimica. 
Io prediligo la moka. Ne preparo una da tre, dopo cena e ne bevo solo un dito. Il restante lo consumo la mattina, freddo. Dopo 3 giorni, se avanzato, vira verso un gradito aroma di cioccolato.
La pressione atmosferica viene vinta dalla tensione del vapore dell’acqua e l’acqua bolle. Infatti non ribollono i laghi, per il momento.
Dal punto di vista d’un candido voltairiano, un poco cresciuto, tutto ciò è chiaro. Per esempio è chiara la ragione sufficiente per cui, se bevuto bollente, il caffé potrebbe ustionare.
Anche io comprendo i meccanismi chimici e fisici conosciuti, cioè le cause e gli effetti d’un qualsiasi evento, dedicando del tempo allo studio. Tempo fa comprendevo anche il fine ed il mezzo, li distinguevo. Poi non più. Mi spiego:  ero in grado di preparare il caffè, ma i ruoli degli attori apparivano immediatamente sfumati, senza un motivo,  e, più m’incaponivo per metterli a fuoco, più si sfocavano. Mi smarrivo in un dedalo di pre e post considerazioni inutili e prostranti
Il caffè fu il primo segnale di questa difficoltà insormontabile nel comprendere le relazioni della realtà. Il secondo segnale fu l’indifferenza verso il mio “regolo d’ingenuità”. 
E’ un regolo in legno di 20 centimetri, con 20 tacche graduate e imperniato al centro d’una cornice 30 per 30; il perno può scorrere in otto direzioni che s’irraggiano dal centro. E’ semplice. Inquadrando una persona a distanza (il viso deve rientrare nella cornice) si deve fare in modo che lo zero della scala sul regolo coincida con la radice del naso. A quel punto, ruotandolo, si annota la distanza fra la punta del mento e la radice del naso.
Poi, lo zero lo si colloca all’estremità di un occhio e si annota la distanza fra le due estremità degli occhi.
Infine, con lo zero all’estremità di un occhio, si annota la distanza fra questo e la punta del mento. Con un semplice calcolo (elaborato ispirandomi a Rodin) si ottiene un risultato che, nel continuum dell’ingenuità (da zero a dieci, da Remedios la Bella, la tabula rasa, a Mata Hari), quantifica l’ingenuità dell’esaminata. Ovviamente la scelta dei rapporti da misurare è frutto di millenari studi fisiognomici, che assumo per validi dogmaticamente.
E‘ fondamentale conoscere il grado d’ingenuità, perché fra gli ingredienti della grazia femminile c’è sempre una presa d’ingenuità. Questo lo ricordavo, ma non comprendevo più quale fosse il fine di questo mezzo e, ne consegue, non individuavo il mezzo, né il fine.
Orbene, dicevo: il caffè ed il regolo, calati nel fiume dell’esistenza, non li compresi più. Da un giorno all’altro, così. Le ragioni prime volatilizzate.
Dopo queste realtà, altre mi si svuotarono fra le mani, realtà il cui ruolo (lo deducevo osservando il prossimo mio) pareva inossidabile. L’automobile per esempio, ma anche le ciabatte, il quadro a vista, la radiosveglia che proietta le ore sul soffitto, la fedeltà perfetta del cane, la putrefazione che genera gigli, i polmoni che scoppiano dopo una corsa ed il gusto insaponato del coriandolo. Smisi persino di fumare.  
Potete immaginare quanto interesse suscitai per la scienza. Dopo classiche visite neurologiche passai attraverso macchinari dal ronzio trapanante, rigorosamente sedato. Venni addirittura spedito a New York, per essere scandagliato da un macchinario sperimentale, una tomografia avveniristica, che produsse una sequela d’immagini multicolori del mio cervello. Nulla…
Anche gli strizzacervelli, dopo avermi mostrato una collezione inesauribile di macchie simmetriche, dopo ore di ipnosi, dopo giorni e giorni di libere associazioni, conclusero che ero sano di mente.
La situazione divenne per me ingestibile. Immaginate d’essere a tavola: ci si alimenta (il che è un bisogno) con del cibo. Quale fosse il fine, quale il mezzo… io lo ignoravo. Rammento che una sera, grave passo falso, ci ragionai sopra. Conclusi che, allora, divorando una versione economica dell‘Aretusi, avrei superato brillantemente l’imbarazzo.
Mi salvò sempre il dubbio che, dilatandosi come una bolla, inglobò l’Aretusi non appena lo impugnai e con esso tutti i libri esistenti; persino quelli che non avevo mai letto e, temo, anche quelli dei quali non conoscevo l’esistenza.
Un caro amico, allora, tornato da Parigi, ci ritornò subito accompagnandomi allo studio filosofico del Dottor Rabroux, non lontano dalla Grande Moschea. “E’ l’ultima moda, suvvia!” mi rincuorò in aereo il mio accompagnatore. Il concetto di “moda” mi procurò un attacco di panico.
Il Rabroux disquisì a lungo col mio amico David (io non ne ero in grado) e concluse, con indisponente sicumera, che il mio era un raro problema di categorie Kantiane. 
Causalità e azione reciproca. Questi due cassetti della mia anima erano bloccati.
Io, potete ben capire, non compresi nulla di quanto il filosofo andava raccontando. Il concetto di cassetto, per giunta, considerando anche la valenza simbolica del termine, mi era di impossibile collocazione.
Ricordo solo che mi praticò la “mossa di Semont”; si narra che l’applicazione della mossa nei casi di categorie kantiane bloccate fu ipotizzata da un fiosioterapista esoterico (che non vuole dire nulla), un essere vivente poco diffuso persino a Parigi, più raro del domatore di topi e del consulente finanziario-medium; questi – per onestà intellettuale – domanda agli spiriti previsioni sull’andamento di borsa. 
Pare che la mossa di Semont sia utile nei casi di labirintite.
Il concetto, per il mio amico David, fu semplice da comprendere: diamo uno scossone, può essere che i cassetti ricomincino a scorrere lungo i propri binari.
La mossa mi procurò nei giorni a venire una violenta labirintite.
Rinchiuso in casa vagavo a tastoni, come un cieco m’appoggiavo persino ai fiori del bagno. Il contatto con qualcosa di statico mi ridonava equilibrio.
Dopo giorni d’incessante burrasca, le mie acque si placarono.
David vinse la mia ritrosia e mi accompagnò in un lurido pub.
Fu lì, quella sera, che un’avvenente donna mi fissò con sfrontatezza. I suoi occhi erano neri come la nigredo, perciò scintillavano promettenti faville; avevano la forma della più classica delle mandorle… Non v’era dubbio alcuno.
Istintivamente cercai nel borsello il mio amato regolo. Vi era ingenuità nella fanciulla? Il regolo giaceva polveroso nella libreria, fra due trattati di lettura del viso.
In quel preciso istante, figurandomi il regolo a riposo fra i libri, compresi d’essere tornato normale.
Fu la mandorla, che nulla ha da spartite con l’occhio, se non metaforicamente, che mi confermò d’essere tornato alla ragione.
Quale sia il fine e quale il mezzo nei rapporti molteplici fra uomo e mandorla, benché sia vana speculazione, dev’essere ben chiaro nella mente, per potersi permettere la manipolazione simbolica d’un vocabolo.
Quando tornai a casa, la sera stessa, tutto mi era chiaro. Finalmente, dopo mesi da candido errante, tutte le certezze erano affiorate dalla ribollita della mia anima.
Finalmente tornai alla mia consueta ottusità, alle mie inattaccabili certezze, all’equilibrio che mi permette di gettare al vento i miei giorni. 
  

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Una domenica

Il prete dell’oratorio del mio paesucolo aveva il pessimo vizio di torcere le dita ai bambini, per estorcere (perdonate il bisticcio) informazioni od ottenere prestazioni (rigorosamente oratoriane, si diceva) dai bambini.
Mi trovai, convinto da una di quelle dolorose torsioni, a lavorare nel bar dell’oratorio che, rispetto ad ideali canoni estetici ed etici, rappresentava la dedizione alla più totalizzante sciatteria.
L’ambiente confinava con la fatiscenza; il bancone era invaso da odiose caramelle gommose variopinte, non si potevano servire caffé ed, infine, non c’era neppure uno straccio di televisore. Ogni tanto entrava qualche perdigiorno con la radiolina incollata all’orecchio; guardava, chiedeva la solita birra che non era in vendita e se andava. Io mi domandavo, e tuttora me lo domando, cosa possa c’entrare Dio con quella bruttura domenicale.
Tornando alle dita: in una giornata anossica, come quella cantata in “Azzurro”, il prete entrò nel bar e si protese verso di me, acchiappandomi in una morsa d’acciaio la mano sinistra. Domandò perentorio: “Tosetti, cosa fa l’Inter?”.
Io risposi prontamente: “Perde tre a due!”. 
Il prete abbozzò un sorriso e, come sempre alacremente, mi torse indice e medio della mano che aveva preventivamente catturato.
Io sentii un dolore insopportabile, udii anche un rumore sordo, simile a due calamite che si attaccano l’una all’altra, uno “”stloc!”.
Con noncuranza il prete se ne andò a passo veloce, impensierito d’un lampo, come un animale al quale piglia chissà quale improvviso uzzolo.
Il mio medio sinistro era notevolmente rosso e faticavo a piegarlo.
Il bar seguitava ad essere vuoto. Uscii nel cortile. Davanti a me si parava la facciata delle vecchia chiesa, diroccata e triste, rasente i muri ciuffi di parietaria, alla quale nessuno badava; gli allergici la guardavano si sbieco, come penso si guardi il basilisco, gli altri erano sopraffatti dall’indolenza della gioventù, che si occupa sempre di guardarci dalle attività che nobilitano.
Il pomeriggio persisteva nel suo stato anossico. Il cielo era veramente troppo azzurro. 
Sulla sinistra del cortile vi era l’entrata del vecchio cinema, anch’esso in disuso; era aperta.
Feci un passo verso il cinema, incuriosito, quando sentii un lungo e profondo muggito provenire dalla sala di proiezione.
Mi fermai insospettito, il muggito aumentò d’intensità. Pareva il lamento di una nave che si inabissa.
Improvvisamente il muggito cessò e, dopo un istante di silenzio totale, il tetto collassò sprofondando nella sala di sotto.
Il cortile fu invaso dalla polvere umida che sbuffava dalla porta del cinema. Il rumore di pietrisco si trascinò scemando per qualche secondo.
Fuori dall’oratorio c’era la solita gentaglia della domenica; quella che sosta sulle panche della piazza con la radiolina, cercando d’ingannare l’inedia, per poi morire d’angoscia il lunedì. Accorse subito un gruppetto di curiosi a vedere il disastro. Un tizio arrivò con la radiolina incollata all’orecchio, urlando che l’Inter aveva pareggiato: Altobelli.
Dopo due ore estrassero dalle macerie un bambino, vivo anche se malconcio, ed il prete, anch’egli malmesso.
Mi domandai perché il prete fosse nel cinema, chiuso da anni, col bambino; forse per torcergli le dita, senza essere disturbato.
Caricarono il Don sulla barella.
Mi avvicinai e gli dissi: “Don! Don! L’inter ha pareggiato!”. Lui, senza voltarsi verso di me, imbragato da mille cinghie, allungò la mano e, cogliendomi di sorpresa, mi torse ancora il dito medio della mano sinistra.