Due aneddoti, anzi tre.

File:Ghiandaia imitatrice.png


Questa mattina, riaffiorando dal sonno, per poi sprofondarci nuovamente, ipnotizzato dal pacato ondeggiare tipico degli iceberg, nei momenti emersi ricordavo vaghi particolari di un sogno, nel quale la faceva da protagonista la ghiandaia.
Il tema centrale del sogno era un trattatello, illustrato con grande maestria, su come distinguere i segni del passaggio della ghiandaia, da quelli lasciati improvvidamente dalla passera comune.
Non ho proprio compreso l’utilità di tale ricerca, fissata in un trattato, ma ciò mi forza a raccontare due aneddoti sulla ghiandaia.
Il primo racconta la dimostrazione di sconfinata cultura ornitologica che sciorinò un tale, completamente ubriaco, in una trattoria nei pressi di Mondovì, anni fa.
In una tavolata di motociclisti, spiccava questo tizio, con un gran barbone imbiancato e un bel paio di baffi alla Nietzsche, i quali mi sorprendono sempre, poiché i visi che portano tali barbigi richiamano indubitabilmente l’espressione della tinca.
Il motociclista, rotondo ma ben rifinito, irradiava intorno a sé la grazia delle sfere ed aveva la punta del naso e le gote iniettate di vino; illustrava teatralmente la sua teoria, gesticolando  con un bicchiere di rosso nella mano, non di rado schizzando i suoi compari che apparivano imperturbabili, forse per i colori tipici dei loro abiti, che ben mascherano (o si sposano) col barbera.
Insomma, in tutto questo agitarsi di flanelle a scacchi rossi e neri, il tizio descrisse una tavola all’aperto, sotto un maestoso tiglio, in una proprietà a ridosso del bosco.
Alla fine del pranzo – proseguiva sbraitando – quando i commensali s’allontanano, il tavolo strabordante di avanzi d’ogni sorta e briciole viene preso d’assalto da industriosi uccelli, che nettano rapidamente la tovaglia, lasciando a bocca aperta i presenti, quando ritornano per sgomberare.
A questo punto la tinca umana sbavò un profluvio di definizioni, puntualizzazioni, classificazioni, per sistematizzare lo scibile che impregnava il quadro generale e dimostrare che, dato il tipo di avanzi in tavola, date le abitudini alimentari della ghiandaia (che da quelle parti, evidentemente, è molto diffusa), l’impresa di pulizie intervenuta non era una truppa di ghiandaie, ma di passere comuni, intervallate da folate di rapaci attirati dalla passera e dagli avanzi di cacciagione.
Il finale, biascicando, venne suggellato battendo sul tavolo il bicchiere, frantumandolo; seguì uno scrosciante applauso.
Io ero estasiato, come sempre abbagliato di fronte alle dimostrazioni di raziocinio applicato a questioni inutili ed ovvie; le acciughe al verde facilitarono il mio stato di beatitudine.
Il secondo aneddoto riguarda Sir Tedee Banghremas, per il quale la storia è stata parca di pagine. Preciso che “Sir”, anteposto a sonorità orientali, suggerisce la sua risalita dallo stato infimo di colonizzato fino al pianoro dell’aristocrazia britannica, ma nessun documento lo conferma.
Nel 1918, sempre nella stessa zona del Piemonte, scovò il celeberrimo “cimitero delle ghiandaie”.
Lo rinvenì all’altezza di tre metri, su di un’immensa quercia secolare, laddove dipartivano i cinque rami principali (essi stessi, presi da soli, possedevano il diametro d’un albero), formando una sorta d’incavo, spazioso e riparato.
In quel punto, Tedee contò ben 73 scheletri di ghiandaia.
In seguito, con l’ostinazione dei ricercatori, i quali – se convinti – dimostrano ogni cosa, s’appostò per tre settimane, in una casupola mimetizzata ad arte, registrando l’arrivo di ben sette ghiandaie, verificando poi la presenza del loro corpicino esanime, fra i resti già presenti. Una fossa comune per ghiandaie, un luogo di eterno riposo, come da tradizione delle ghiandaie piemontesi.
Giunto allora, dopo ventuno giorni, a contare ottanta defunte, Tedee s’apprestava ad affrontare un interrogativo fondamentale, per comprendere il curioso fenomeno: perché le bestie selvatiche non si cibavano di quelle carogne, osservando una sorta di rispetto animale?
Tutto questo, Tedee l’annotò sul taccuino, con illustrazioni minuziose e dovizia di particolari; annotò, purtroppo, il 23 luglio del 1918, d’aver sospeso le sue ricerche a causa d’un attacco di difterite.
La malattia se lo portò via in breve tempo, si deduce, lasciando irrisolto il mistero; il baule da viaggio seguì la salma in Inghilterra e, circa sessant’anni dopo, andò all’asta, rivelando al mondo la sua scoperta.
Tornando ai giorni nostri, il sottoscritto, verso sera, s’è reso conto d’aver visto – il giorno prima –  un film non eccessivamente stupido, nel quale una spilla che raffigura una ghiandaia imitatrice mostra il suo potere apotropaico. 

E, nulla… tutto qui.

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Gli alieni etruschi

Quando fui sottoposto ad un estenuante colloquio con alcuni luminari della scienza, cercai in tutti i modi di convincere loro  della mia sincerità. Ero stato “vittima” di un rapimento alieno, ma loro, con orgoglio e snobismo, deprecavano la definizione in lingua italiana, di cotanto evento d’inciucio intergalattico.
Ogni volta, uno di loro, d’una magrezza malsana, anoressica, con occhialini tondi e bacchette in filo in titanio, si schiariva la voce, interrompendomi, per precisare: “Ehm… Alien abduction!”. 
Io ribattevo, mi si gonfiava la coda, ribattevo che la definizione è tratta da un b-movie. C’era poco da fare gli spocchiosi.
Quindi, dicevo, rapimento alieno, ma in realtà, il termine di “vittima” era fuori luogo. 
Certo, non mi domandarono il permesso. Mi prelevarono mentre ero in coda in autostrada, senza chiedere. Stavo sapientemente confezionando una sigaretta (rigorosamente senza filtro) del mio amato tabacco danese, quando sentii una vibrazione sospetta, l’auto era spenta; ero fermo da almeno venti minuti.
E’ difficile da spiegare: è come se avessi perso i sensi per un istante. Mi ritrovai circondato da uomini (si, uomini) dai gusti  pacchiani, con sgargianti camicie tropicali, lunghe, su pantaloni dai colori troppo vividi e ibridati, abbinati in modo da scatenare ripulsa.
Molti avevano infradito verdi, d’una marca che visse anni fa, sulla terra, un’estate glamour. Altri, sorprendentemente, indossavano completi d’alta sartoria, ma un poco datati, almeno d’un ventennio or sono e mi figurai che, prima di prelevare proprio me, avessero svaligiato uno di quei magazzini cinesi di periferia, maree di orrore e di carabattole.
Stavano tutt’intorno a me, una inimmaginabile luce nera delineava uno spazio, ma non vedevo le pareti e nemmeno un pavimento, ero sdraiato.
Non mi fecero nulla di male. Dopo una serie di prelievi  di sangue e tessuti vari (assolutamente indolori, con curiosi strumenti opalescenti) mi portarono a visitare la nave.
Non saprei descrivere quello che non riuscivo a vedere; quella luce nera mascherava l’ambiente; capisco, può apparire assurdo, ma era luce, viva e nera, come il liquore alla liquirizia.
Dopo quelli che mi parvero una decina di minuti di camminata nel nulla, incuriosito dal silenzio dei miei rapitori e dall’assenza di rumore, mi soffiai il naso: non emisi alcun suono.
Uno degli accompagnatori, con un pacato gesto della mano, da direttore d’orchestra, accese una lampada che rischiarò il luogo. 
Un tempio. Mosaici dionisiaci sotto ai miei piedi e sulle pareti. Frammenti di bassorilievi etruschi, statue, maiali liberi grufolavano e sporcavano. Le ghiande calpestate dagli ungulati non crepitavano. Altre rotolavano mute.
Una scrofa dalle dimensioni inaudite si pasceva d’un pastone orribile a vedersi, che emanava un tanfo da cucina di caserma. Intorno alla scrofa uno steccato le impediva di allontanarsi.
Circondando la gravida, un gruppetto di alieni dormiva sonni profondi, affondati nella certezza che la scrofa avesse rivelato loro il futuro.
“Porca boia!”, pensai… Questi avevano saccheggiato un museo. Forse possedevano una tecnologia, per cui, per uccidere la noia, se ne andavano a trovare tombe etrusche, coi loro marchingegni zeppi di cannule alla luce nera; s’erano fatti una discreta collezione.  Oppure, infine, erano etruschi, il che non avrebbe senso, se non per il fatto che io sono un illustre etruscologo. 
Mi sorpresero allora i miei esimi colleghi (notai che uno assomigliava a Marx), quando mi risero in faccia, grossolanamente, e senza ritegno, alle mie spiegazioni. Un paio contrassero il viso impercettibilmente e, pur lodandone l’autocontrollo, colsi il disappunto. 
Gli alieni sono etruschi, oppure vivono una passione per quella cultura. 
Nulla… Si stupirono, al contrario, quando raccontai della presenza del divin suino.
Mi cacciarono in malo modo.
Per due mesi il Magnifico Rettore, a sorpresa, fece capolino fra gli studenti; seguì diverse mie lezioni, per appurare che il mio cervello non volasse troppo spesso con maiali cosmici. Rischiai il posto, insomma.  
Uno dei summenzionati inquisitori accademici, tre mesi dopo la mia gita spaziale, assieme a dei suoi compari, vanagloriosi attivisti,  portò dei maiali a defecare in un campo, in modo da impedire la costruzione di una moschea.

Sincronicity

 
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Questa mattina ho vissuto un evento bizzarro, che me ne ha ricordato un altro, della stessa foggia (apparentemente).
Evento odierno:
Mi sveglio (ore 6.45) e mi assale il ricordo una battuta di Crozza. Non saprei spiegarne il motivo e, inoltre, confesso che m’indispettisce non poco che il primo pensiero del mattino sia di questo genere, benché Crozza mi faccia spesso ridere. 
Sarebbe stato atroce, per me un’onta insopportabile, pensare a qualche stolto scatch tratto da Colorado o Zelig, che mi inoculano un tremendo senso di vuoto e sollecitato l’horror vacui. Devo ammettere, però, che sarebbe stato interessante, scientificamente, in quanto non ho mai seguito una puntata di quei due miserrimi show.
In ogni caso: la battuta di Crozza non ha importanza; ciò che conta è il fatto che egli nomini Joseph Eugene Stiglitz, un economista e saggista statunitense (la consecutio è corretta, poiché le registrazioni perpetuano l’atto nel presente).
Salgo in macchina (ore 7.30), Stiglitz mi tormenta incessantemente e, per assonanza, forse, riemerge dalla nigredo dei ricordi tale “Stiz”.
Di Stiz ricordo solo il cognome. Fu (oppure “è”, non lo so) un tecnico di un dipartimento universitario (che per ovvi motivi non preciso), il quale indirettamente mi creò non pochi momenti di desolazione.
Percorro la SS346, il pensiero di Stiz mi assilla; rammento aneddoti vari intorno al personaggio.
Ascolto Errepi, parte un programma sulla strage di Piazza Fontana, viene nominato il giudice Giancarlo Stiz, figura fondamentale nelle indagini sulla strage. Sono attonito. Scendo dalla macchina, inizio a lavorare. Mi domando cosa stia mai sbagliando.
Evento passato:
premetto che ho svolto il servizio militare durante dal 1989 al 1990, in Merano.
Un commilitore, tale Quinterio (non rammento il nome), veniva da un paese brianzolo, cioè Verderio (non saprei se “superiore” o “inferiore”, ma grazie a Dio pare che li si voglia unificare). 
Non ho intrattenuto rapporti stretti con Quinterio e, dopo la naja, non l’ho più visto.
Passano tredici anni, mi trasferisco a Brivio (in provincia di Lecco), che non è lontano da Verderio (nel frattempo, però, il povero Quinterio era finito nella mia summenzionata e oscura nigredo; mai più l’avevo pensato).
Trascorrono altri otto anni: un venerdì mi appisolo sul divano, dopo pranzo.
Mi sveglio verso le 15.00; la bocca ed i pensieri sono impastati e densi, le mucose del palato gonfie.
Durante il pisolino ho sognato di visitare la sede di Errepi, curiosamente costruita in umide grotte sotterranee.
Nella comitiva di visitatori, con grande stupore, fra gli sconosciuti c’è Quinterio.
E’ vestito da militare; parlottiamo. Mi spiega di essere rimasto nell’esercito. Trattengo il mio ontologico ribrezzo per la scelta.
Sono le 15.30 circa, una volta soppesato il ricordo di Quinterio, vado al supermercato. 
Spingo il carrello, infilandomi fra due file di scaffali (Biologico e salutista sulla destra, merendine e biscotti sulla sinistra). Quando faccio per attraversare la corsia centrale, incrocio Quinterio che spinge un carrello. Il tempo l’ha raggrinzito e incanutito, ma è lui.
Resto di stucco. Non lo chiamo, lo lascio sfilare. Faccio la spesa un poco confuso, le mucose sono gonfie, i pensieri impastati. Torno a casa pensieroso.
Mi domando cosa stia mai sbagliando.
Bene, tutto qui…

Visioni desertiche

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In passato presi molto seriamente l’etnobotanica.
Questa affascinante materia mi consentiva di reperire informazioni attendibili sulle lisergiche possibilità offerte dal regno vegetale.
Non mi spinsi mai, per le stesse ragioni, nel regno animale. Troppo complicato.
La soluzione più comoda, indirizzando il mio visionario desìo verso gli animali, sarebbe stata quella di farmi tarantolare, ma, ahimè, ho difficoltà ad approcciare gli aracnidi, tanto che guardo con profonda angoscia le arachidi, a causa dell’inquietante assonanza.
Mi meraviglio che nessuno della beat generation abbia considerato la possibilità che le arachidi (in particolari condizioni) possano cacciare sei zampette pelose.
Neppure il caro William S. Burroughs, che di visioni se ne intendeva non poco, pensò ad una innocua nocciolina che diviene ragno; occorre ricordare, però, di tutto rispetto, nel delirante The Naked Lunch, la macchina da scrivere che muta in scarafaggio (per me, uno scarabeo), cacciando un fallo sovrumano che farebbe invidia a John Holmes.
Di grande rilievo, tra l’altro, la trasposizione su pellicola di David Cronemberg.
Un rimpianto che ad oggi mi accompagna, in fatto di visioni indotte da bestioline, è quello di non aver leccato il Bufo Alvarius, il placido rospo che prospera nel sud degli Stati Uniti e nel Messico, le cui secrezioni ghiandolari contengono: N-dimetiltriptamina, bufotenina, S-metossi-Nmetiltriptamina, 5-idrossi-triptamina, 5-idrossi-Nmetiltriptamina, ldeidrobufotenina, bufotalina, la bufotossina e l’epinefrina.
Il compianto Jerry Garcia (vedi anche qui) descrisse con melanconico afflato gli effetti del DMT, che venne sintetizzato partendo dalle rospine secrezioni, e che si diffuse fra i fricchettoni degli anni ’60.
Impensabili macchinari bio-meccanici, sbuffanti e sferraglianti, comparivano invadendo con ingenua prepotenza la nostra presunta realtà oggettiva; in brevissimo tempo se ne tornavano da dove erano venuti, scomparivano rapidamente, mostrando l’aspetto deludente del DMT:  l’alterazione è fuggevole.
Quindi, riprendendo il filo, le mie scorribande nelle altre visioni della realtà (nessuno ha mai provato che non lo siano) non sono state risultato d’avventure salgariane.
Al massimo mi sono spinto sui nostri monti a brucare funghi.
Mi capitò però d’essere in Giordania e, da qualche parte intorno a Wadi Musa, d’incontrare un beduino appollaiato su di una roccia. Era il tipico uomo dall’età imprecisata. 
Pareva vecchio: la pelle brunastra e raggrinzita era solcata da profonde tracce d’aratro, ma il suo sguardo emanava lo scintillio d’un giovane. 
Il sole bacia i belli, si dice, ma è il bacio di Giuda.
Il beduino estrasse un fazzoletto rigonfio dalla tasca. Poi estrasse delle cartine e si confezionò con rara maestria una sigaretta. Il contenuto del fazzoletto era un’erba verdissima; sembrava fresca.
Io, pregustando un volo radente sui templi di Petra, mi avvicinai e gli chiesi di farmi provare il suo prezioso viatico per il migliore dei mondi possibili.
Non so in che modo ci capimmo, ma il giovane vecchio preparò una sigaretta e me la diede. Io la accesi, con una profonda inspirazione: fu come respirare il fuoco puro. Le fiamme brucianti mi stroncarono il respiro, iniziai a tossire convulsivamente, piegandomi dal dolore e dall’affanno.
Il giovane vecchio mi guardò e mi disse: “No sfff, no sfff!”, mimando il gesto d’aspirare. Poi me lo mostrò, tirando una piena boccata, lasciando che il fumo defluisse dall’angolo della bocca, senza assorbirlo minimamente.
Io lo guardai, feci il gesto universale dell’avambraccio che va su e giù e domandai in italiano: “Ma che c****o è ‘sta roba?!”.
Il beduino sorrise e, con la mano spalancata, m’invitò a guardare intorno.
“Mmmmh, mmmmh!”… Indicò l’erbetta che, indomita come la ginestra, spuntava in sparuti ciuffi qua e la, nel paesaggio riarso e sabbioso di quei luoghi.
Era erba, semplicemente erba di campo.

Gianni C.


Conobbi Gianni C., perché abitava nello stesso condominio del mio amico Daniele.
Viaggiavamo intorno  alla metà degli anni ottanta; io adolescente, mentre lui contava già almeno il doppio dei miei anni.
Viveva con la vecchia madre, una donnina rinsecchita dalle traversie, tutta spigoli e nervi, la quale – se non erro – gli è sopravvissuta.
Gianni non era certo un bel vedere; non lo si dimenticava.  Allampanato, con uno sguardo fisso, vitreo e folle, girava quasi tutto l’anno in maniche corte, col pacchetto di MS arrotolato nella manica sinistra. Portava capelli corti, dalla consistenza del pagliericcio ed il viso scavato era tagliato da ispidi baffetti castani.
Talvolta mostrava noncurante le braccia straziate nel tentativo di cancellare degli orribili tatuaggi, operazione che eseguiva con tecniche brutalmente medioevali.
Un giorno gli consigliai di usare la pietra focaia; mi pentii subito della sortita, ma, grazie al cielo, Gianni C. non mi stava ascoltando, perché non ascoltava mai.
“C.” sta per cioccolato, ma non conosco il motivo di questo soprannome.
Un mio parente, suo coetaneo, mi raccontò che Gianni si era frullato il cervello con vari bad trip, durante l’epopea della psichedelia nostrana.
Gianni C. mi attendeva spesso in stazione, verso le 13.00. Allora io tornavo da scuola ed i miei compagni sgranavano gli occhi; a quell’ora la banchina era vuota e lui appariva come l’angelo della morte col walkman, in pieno deserto.
Pur da fermo, era in movimento. Piegava leggermente le gambe, alternandole, producendosi in un dondolio costante, che, se osservato troppo, mi scatenava un lieve capogiro.
Quando scendevo dal treno (con una certa vergogna) mi salutava e mi accompagnava verso casa. In dieci minuti mi scroccava 3 o 4 sigarette, più altrettante per un enigmatico “dopo”; mi invitava a prendere un aperitivo, che non pagava mai. Ricordo che un giorno si presentò di buon umore, quasi solare; mi obbligò, amorevolmente, a fumare qualche sua sigaretta e mi pagò un Crodino.
In genere, a metà tragitto, lui deviava per il centro del paese, lasciandomi proseguire da solo, ma talvolta mi domandava delle musicassette in prestito, allora si spingeva fino a casa mia, suscitando enorme timore in mia nonna, preoccupata per le mie sorprendenti frequentazioni.
Mi attendeva di fuori, non entrava. Gli portavo delle musicassette (conscio di doverle salutare per sempre) e lui se andava; una volta gli diedi anche una bottiglia di Merlot.
Malgrado il suo aspetto non fosse da cortigiano, Gianni C. era innocuo. I suoi sensi avevano l’unica funzione d’introiettare il mondo, chissà con quali sfumature; viveva un palese isolamento, ragion per cui eventuali accessi d’ira si manifestavano in gesti autolesionisti. Un mio conoscente, che lo seguì durante il servizio civile, mi confessò d’un suo tentativo d’evirazione, con delle forbici.
Ebbene, Gianni C. aveva dei guizzi profetici e non c’è da meravigliarsi. Qualunque fosse la sua personale logica, Gianni dialogava con sé stesso, ininterrottamente. Sono certo: pur col suo peculiare sguardo, Gianni aveva scostato i molti veli che –  in noi – celano il mistero e, forse, s’era avvicinato più di molti grandi pensatori alla scaturigine della realtà tutta, che sonnecchia in noi. Quella fonte è Dio, altro che il dispotico tri-fronte dei monoteisti. Penso che Gianni, nel suo sfibrante dialogarsi, scalò la tetraktys.
Rammento un suo poema apocalittico, registrato su musicassetta, che recitava: “Nave che in mar pericola, monti che cascan rotti, negozi a tutta perdita, truffe e fallimenti, saran per l’uman genere anni de tormenti”.
Ricordo una sua profezia, purtroppo compresa dopo vent’anni: gli prestai le cuffie del mio impianto stereo, che, nel rispetto delle meccaniche universali, non mi restituì più.
Quando le reclamai, di fronte al mio disappunto, egli mi disse:  “Cosa te ne fai? Sono globali…”.
“In che senso?”, gli domandai confuso.
Come? Sono globali, non capisci?”, insistette.
Io non insistetti e non capii. Quando ripenso a quel dialogo, ora, molti anni dopo, mi rendo conto che l’accezione moderna di “globale” e “globalizzazione”, che calzava a pennello per quell’oggetto, era custodita in qualche tabernacolo accademico, in attesa che i tempi fossero maturi per comprenderla.
Gianni C. ora riposa in pace; sulla lapide c’è una fotografia giovanile, ma io non l’ho ancora vista. Un bel ragazzo, si dice.


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Terremoti

(Its an old Japanese recipe; artist: Ed Mclachlan)


Iginia era una signora, un poco su d’età, come tante.

Abitava al secondo piano d’un vecchio palazzo posto al centro del paese, in un viottolo che dipartiva dalla piazza della chiesa.

Come le tante altre alle quali alludevo, Iginia portava capelli bianchi e molto radi, scarmigliati, avendo abbandonato da trent’anni il dignitoso rito di ravviarli al risveglio.

Sospettavo che Iginia non si curasse neppure d’usare una reticella, durante il sonno, ragion per la quale l’effetto da fresca baruffa della sua capigliatura, assai curioso, mutava ogni giorno, lungo un’intera fase lunare.

Iginia, dalla carnagione lattiginosa, mostrava un viso un poco gonfio; un gonfiore d’età, da stanchezza degli organi emuntori, da pensieri secolari, insufflati nella mente attraverso i disponibili orifizi, da quegli spiritelli dispettosi ben catalogati dai cinesi antichi: questioni di congestione della milza, per intenderci.

Anche le vesti indossate da Iginia contribuivano a definire la sua partecipazione al lento corteo delle Partenti, quel numeroso esercito di donne antiche, senza più fremiti d’ogni sorta, che all’apparenza hanno perduto il calore dell’ardente fuoco sacro interiore.

I colori pavidi dei tessuti, smunti, parevano affacciarsi a noi dalle finestre di un’altra dimensione.  Non erano slavati, tale impressione è veicolata  dall’inganno dei sensi: non si volevano mostrare in pieno vigore, forse per consonanza con la donna.

Iginia la vedevo spentolare, attraverso la porta finestra della sua cucina, mentre badavo all’orto ed al mio piccolo giardino.

Un giorno, intento a potare il melograno nano, la salutai e lei mi rispose agitando la mano, ma sviando come sempre lo sguardo dal mio, come in imbarazzo di fronte ad un essere umano dai sentimenti ancora caldi.

Suo marito era scomparso da tempo, in un istante, senza avvisare, mentre i suoi figli abitavano altrove, limitandosi alle prescritte visite domenicali, che da un lato placano i sensi di colpa, ma dall’altro alimentano la noia.

Quando il terremoto sventrò il palazzo, lasciandolo in bella mostra con una tremenda cicatrice, Iginia s’impasto con la devastazione; fu ben difficile recuperare i suoi resti ed altrettanto ricomporli, perché cedette il lato sinistro della casa, proprio il lato in cui, nel suo appartamento, vi era il fornello a gas.

I terremoti che colpiscono intorno a mezzogiorno, mossi da inflessibili convinzioni dantesche, fanno stragi di golosi e, poiché la storia irretisce sempre gl’innocenti,  si prendono pure chi si nutre quanto basta per stare in piedi, e nulla più.

Nel mio giardino crollarono detriti, il mio melograno nano venne sommerso; fra i calcinacci emergeva una testa di bambola con grandi occhi turchesi, dall’espressione attonita.

  

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Cani e Gatti

Il 14 agosto, dopo un pantagruelico pranzo in un agriturismo  d’altura, si stava chiacchierando col mio amico Vanni ed i rispettivi genitori, quando si fermarono quattro passanti, per ottemperare al codice montano, che prevede inutili convenevoli.
Uno di loro, piuttosto âgée, manifestò immediatamente (a sproposito) la sua passione per il Duce e la sua fede fascista, senza lesinare continui saluti romani, dispensandoci racconti di fucilazioni di giovinetti intemperanti e illustrando la più lisa delle teorie di fantastoria; come sarebbe il mondo se il baffino avesse vinto la guerra, che, al vecchio pungeva, pare venne vinta dal baffone.
Tralasciando le visioni cupe dell’ultra-ottuagenario, la discussione s’incagliò intorno al rapporto fascisti-partigiani: mio padre sosteneva che – nella stalla di suo nonno, quando fuori infuriava la bufera di neve – si scaldavano e si rifocillavano insieme i tedeschi, i partigiani ed i fascisti.
Il vecchio ripeteva a macchinetta che, no, fascisti e partigiani non avrebbero mai potuto sedere allo stesso tavolo, neppure per fame. Sembrava accettare, invece, la comunella di soldati tedeschi e partigiani.
A me, onestamente, la verità propugnata dal vecchio pareva una colossale idiozia. La storia è piena di episodi che lo provano: per una donna scoppiano guerre infinite e per la fame le tregue sono quotidiane. Ammetto: la scuola dell’esistenza ha un indubbio peso, nel bagaglio delle esperienze. Ciò che si può ragionevolmente dubitare, è che una persona abbia gli strumenti critici per interpretare gli eventi e per raccontarli con onestà. In altre parole: per un gatto, l’amicizia con un cane può essere d’imbarazzo presso la comunità felina. Meglio sorvolare se non si possiede solida arte retorica, per dimostrare che la storia è sollecitata e deviata da fronti comuni, da masse che formano solide e immense unità, all’interno delle quali, gli uomini, le cellule, non possono essere identici negli intenti, come è nella natura delle cose: la somma non è solo un elenco di unità. 
Io cercai d’intervenire, ricordando al vecchio che Rigoni Stern, durante la ritirata di Russia (ci perì anche il padre di mio padre), accolto nelle isbe, per scaldarsi e per nutrirsi, spesso si trovò seduto ad un tavolo assieme ai soldati russi, per poi ripartire, tutti, ognuno verso il proprio disumano destino. 
Io, povero ingenuo, pensavo che lo sterminio testimoniato da Rigoni Stern non avesse un colore: fu il resoconto di un suicidio di massa, una carneficina il cui messaggio non ha nulla a che vedere con le divisioni politiche. Mi sbagliavo. Il vecchio non era incline alla lettura ed al ragionamento.
Comunque sia: ecco la vicenda che visse mio padre, a cinque anni, per cui della sicumera del vecchio ben poco m’importa.
Per sfuggire ai bombardamenti, si rifugiò dal nonno, sui monti del bresciano: a Ono San Pietro.
Sostiene mio padre, appunto, che la temperatura della stalla attirava esponenti di tutte le fazioni in guerra: deponevano le armi, entravano, si scaldavano e si rifocillavano, per poi andarsene a gruppi e ricominciare a massacrarsi. 
Devo aggiungere un particolare: la zia di mio padre ebbe un figlio con un fascista, che, a guerra finita venne arrestato, in quanto esponente della Banda Koch. La tensione, quindi, nella stalla del nonno Formentelli, colmava l’aria, già ammorbata dai polmoni di bestie, di umani e di umani bestiali. Si temeva continuamente un’uscita sbagliata, una parola di troppo che avrebbe scatenato una sparatoria. 
Una sera, la palla di mio padre finì nel grande camino della stalla; per recuperarla si aggrappò al calderone, nel quale sobbolliva perennemente il pastone per i maiali.
Il calderone gli si rovesciò addosso, procurandogli gravissime ustioni. Ancora oggi, passati sessantotto anni, il braccio destro per intero, il petto e mezzo braccio sinistro portano i segni di questa tragedia.
Venne immediatamente cosparso di olio, senza essere spogliato (assieme agli indumenti si sarebbe staccata anche la pelle) ed avvolto in pesanti coperte.
Partirono in quattro (mio padre racconta di fascisti e partigiani) che, dandosi il cambio nella neve alta, portarono a piedi mio padre fino a Capo di Ponte.
Lì si rivolsero al medico (del quale non rammento il nome), il quale caricò il gassogeno dell’automobile con legna secca, portando mio padre all’ospedale di Brescia.
La pelle, fusa nella posizione assunta al momento dell’ustione, venne tagliata immediatamente.
Fino all’età di diciassette anni, periodicamente, gli venne disteso il braccio destro (che rimaneva piegato) e ripiegato il sinistro, che giaceva perennemente disteso, per indurre la pelle a crescere correttamente e permettere il movimento degli arti.
All’ospedale di Brescia, nel quale soggiornò a lungo, una suorina gli s’avvicinava: “Mi dispiace piccolo, ma dobbiamo spaccare…”. Riponeva una bacinella sotto il gomito e, con un colpo secco, gli distendeva il braccio destro, aprendo uno squarcio nell’interno dell’articolazione del gomito. Poi ripeteva l’operazione al braccio sinistro, piegandolo.
Racconta mio padre di ricordarsi nitidamente due feriti gravissimi, giunti all’ospedale agonizzanti e morti poco dopo: uno con un buco in pancia. Non era una fucilata, si poteva vedere dall’altra parte, mancavano delle viscere. L’altro aveva perso parte del cranio.
Quand’ero bambino, mio padre mi spiegava di essersi procurato quel disastro combattendo nei Lanceri del Bengala. Pare che, alle ragazze, raccontasse di chissà quali battaglie, chissà dove combattute, riuscendo a dare ulteriore colore alla tragedia, di per sé già pulsante di rosso sangue, su sfondo verde acqua.
Mio padre ha vissuto tutto questo, ha giocato per anni con un tenente tedesco il quale (rischiando la fucilazione) lo faceva divertire mettendo la polvere da sparo sui binari, al passaggio del treno. Lo vide poi morire esangue dopo una coltellata.
Mio padre ha visto, ed ha capito che una cosa è l’uomo e altra è la storia, benché l’uno incida sull’altra e viceversa. Benché l’uomo crei la storia e questa, animata e ottusa come un Golem , possa tritare il suo creatore.

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Dei colori

Vivevo ancora in quel di Milano, ragion per cui la mia età era inferiore ai sette anni; forse andavo per i cinque.

Un sabato sera i miei genitori mi portarono con loro a casa di conoscenti, mostrando una presbite visione dell’immediato futuro; amici di famiglia che vantavano un certo lignaggio: il direttore generale dell’azienda in cui mio padre lavorava, figlio di pari grado e nipote d’amministratori delegati, nel rispetto d’una ferrea legge castica, ornato dall’immancabile consorte e, seppi decenni dopo, senza l’intuibile amante, che poi conobbi in seguito, scoprendo (con mia grande mestizia) che non tutte le segretarie sfoggiano la “o slabbrata”.
Ebbene, questa coppia (senza figli) possedeva una rarissima, per l’epoca,  televisione a colori, oggetto sconosciuto al sottoscritto.
Mentre gli adulti discorrevano intorno agli ostacoli sparsi nell’esistere (ora potrei intrattenerli a lungo, malgrado mi senta alieno rispetto a molte delle tematiche diffuse), per tenermi buono buono, venni collocato dinnanzi al maligno schermo, per la puntata rituale di Scacciapensieri (che, peraltro, scopro essere ancora in palinsesto).
Arrivò il momento dei saluti; gli adulti si profusero negli inchini e nei salamelecchi imposti dal protocollo, mentre io – avulso dal mondo più che mai – giacevo inebetito per cagione dello schermaccio.
Rammento bene il visino di mia madre (gran bella donna) che, salendo in macchina, mi gelava: “E’ inutile che vieni a cercare conforto da me, il papà ha ragione!”.
Il punto è che i miei usavano dei sani metodi educativi (e non faccio dell’ironia): quando m’avvinghiai urlando al divano, volendo rimanere davanti al TV color, loro si limitarono a prendermi di forza, ma quando, poi, strillando e singhiozzando mi dibattevo, cercando di svincolarmi dalla morsa d’acciaio di mio padre, beh, allora lui m’appioppò due sonori ceffoni. E punto. 
Qualche giorno dopo, in casa con la mia cara nonna, guardavo il nostro TV, in rigoroso e proletario bianco e nero. E’ difficile ora spiegare, ma rammento precisamente che mi convinsi del fatto che anche la nostra TV fosse a colori. Nel sostenere la mia tesi, m’appoggiai alle infinite sfumature di grigio ed il desiderio ardente di vedere una televisione a colori oliò gli ingranaggi della mia mente.
Orbene, ero un bambino, certo. Risulta comunque affascinante il meccanismo psicologico per il quale un bimbo, circondato dai colori dell’appartamento e degli enti ivi contenuti, da quelli del mondo che palpitava all’esterno, un bambino che i genitori crescevano fra musei, laghi, montagne e mare, un bambino che spesso correva nei prati delle campagne, dai nonni, tuttavia potesse sdoppiare la percezione in un istante ed utilizzare due binari paralleli, in contemporanea.
Nella televisione i colori erano triste sfumature di grigio, tutt’intorno i colori erano quelli che i nostri occhi, abitualmente, decrittano ed interpretano.
Rammento la sensazione. Un albero trasmesso dallo schermo in bianco e nero non m’appariva verde nel fogliame, ma percepivo una debolissima sfumatura di quel colore; remota, lontanissima; l’immaginazione si sovrapponeva alla vista. Ciò non stupisce: è un atto abituale, ma un corretto sviluppo ci permette di distinguere alla sorgente l’immaginario dalla realtà. Mentre sto scrivendo, oggi, mi posso figurare un risotto coi moscardini e zucchine stufate all’alloro, me lo posso figurare, nel senso che “vedo” il piatto fumante, mentre guardo lo schermo e non v’è dubbio su quale dei due sia l’oggetto materiale. Allora, tutto questo non accadde.
Sia chiaro, mia nonna cercò di convincermi dell’amenità del fenomeno; la sera, poi, mio padre, con calma, mi aiutò a comprendere che no, non avevamo un TV color e non potevamo neppure permettercelo.
Trentacinque anni dopo, una notte, intento a scolarmi una bottiglia di Amaro 18 con un amico, nella piccola radura che si apre di fronte alla mia casa valtellinese, si verificò un fenomeno dello stesso tipo.
Siamo nel bosco, non ci sono luci. Il buio è pesto, da paura atavica: la morte, l’oblio, l’archetipo del nulla e tutte quelle balle suggestive e appiccicose. 
La via lattea è l’unica fonte luminosa. 
L’amico domanda: “Ma secondo te, che colore è quello lì?”, indicando l’ectoplasma di un noce, che si staglia a tre metri da noi. 
L’albero esiste tuttora, è li da prima del nostro avvento. Intendo dire che il mio amico indicò nella giusta direzione. Io stesso rivolsi correttamente lo sguardo a quell’accenno di albero.
La bottiglia di Amaro 18 era quasi terminata, preceduta, a cena, da una ragionevole quantità di onestissima Barbera. Non che voglia attribuire alterazioni percettive unicamente agli alcolici e Oscar Wilde ben sintetizzò il concetto; lungi da me, ma so con certezza che il “18” dell’Amaro indica ermeticamente le 18 vie percettive che si possono aprire, abusandone. Furono sapientemente studiate a tavolino, vi è un progetto preciso a monte.
In un breve periodo negli anni ’80, l’etichetta sul retro della bottiglia mostrava Giacinto Facchetti che, con piglio d’istitutore, puntava la bacchetta verso una lavagnetta di tradizionale ardesia, sulla quale col gesso aveva tracciato uno schema di gioco. Una chiarissima allegoria. 
Quindi: si ripresentò il fenomeno. Entrambi vedevamo una timidissima velatura d’un verde morente, un palpito agonizzante di colore, il tutto benché istruiti da diverse teorie intorno al mistero dei colori.
Non posso pronunciarmi per l’amico, ma per quanto mi concerne, so che – la notte – in assenza di luce, i colori sono esattamente nello stesso punto in cui li si vede di giorno; sono addormentati, tutto qui. Non godono dell’ausilio di quel ponte che, col sole, li fa incontrare con la nostra vista.
Disquisemmo inevitabilmente a lungo, sull’aspetto di quel verde noce. Io vidi persino delle macchie brunite su di alcune foglie; riaffiorò il ricordo della TV a colori.
Poi, che accadde? Nulla più. Saltammo piè pari in un’altra delle 18 vie percettive, senza una ragione, sospinti dalle baruffe dei venti alcolici; il mistero rimase irrisolto.
Ecco, perciò la differenza. Mio padre, un’era fa, m’aiutò a comprendere che mi stavo autosuggestionando e non penso fu per lui difficoltoso. 
Allora non bevevo.
 

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Appunti #1 – Carcasse

La spiaggia pullula di carcasse di umani spiaggiati.
Balza subito all’occhio il gonfiore, sintomo (unitamente al colorito) di una lunga permanenza in acqua.
L’odore e’ altrettanto inequivocabile; un misto di fermentazione di carni e di alghe iodate putrefatte.
Ciò che colpisce e’ l’indifferenza tutto intorno: bambini che saltano gioiosi fra le onde, adulti che giocano a palla o con globalizzate racchette. Altri, corpulenti ma vivi, imprecano al gioco delle carte. Altri ancora, marroni come il cuoio tinto, si rosolano al sole russando. Qualcuno legge; di questi, rarissimi leggono classici. I più, riviste scandalistiche obbrobriose. Tutti alternano le attività elencate con lunghe sessioni al tablet.
Sgomento di fronte alle carcasse (alcune emettono gorgoglii, vibrando flaccidamente) mi sono preso la briga di informare un noto istituto di ricerca marina, di Ancona.
M’hanno risposto che è un fenomeno frequente in questo periodo dell’anno, inoltre è ingannevole. Dicono che le carcasse potrebbero essere arrivate vive, da terra.
Per stabilire la verità, servirebbe un’autopsia; lo stomaco potrebbe contenere bivalvi e piccoli crostacei, provando l’origine marina dei cadaveri.
Purtroppo, aggiungono, e’ periodo di ferie anche per i ricercatori e nessuno risulta disponibile per un sopralluogo.
Chiudendo la telefonata, mi consigliano (per una mera questione di buon senso) di non toccare le carcasse; portano batteri potenzialmente nocivi.

La mucca piccola

 (opera di Tokuhiro Kawai)
Cara Cornelia, 
sappi che in un rudere, posto in una viuzza secondaria del mio inconscio, tanto che raramente vi transito, c’è un attaccapanni.
E’ un pannello di volgare legno, coperto da uno strato di finta radica, alla moda del design popolare degli anni quaranta.
Dal pannello (fissato al muro) si protendono sei macabre riproduzioni di zampette di daino, piegate all’insù. 
Durante le mie rare comparsate in quell’ambiente sotto-cosciente, entrato nel rudere, per prima cosa appendo alle zampette il mio pesante pastrano ed il cappello.
Sia chiaro, Cornelia, a casa mia tu non puoi aver visto questi abiti: fanno parte di una dotazione di eminente sostanza immateriale; è un equipaggiamento che utilizzo unicamente in certe zone fredde dei miei sogni.
Comunque sia: un giorno, appendendo il pastrano ad una zampetta, il muro intriso d’umidità e sfarinato mollò la presa.
Il pannello mi rovinò addosso e, con mia grande gioia (tu sai che ho il pallino delle crepe), rivelò una spaccatura nel muro, celata da chissà quanta porzione d’eternità, là dietro.
Era una signora crepa, Cornelia. Il punto più largo misurava una spanna; provai ad infilarci un braccio, che ci entrò fino al gomito.
Incuriosito dal nero corvino che promanava dalla crepa, soppesando l’entità della scoperta, me ne stavo con una mano sul fianco, mentre l’altra poggiava sul bordo della spaccatura e nervosamente ci picchiettavo le dita, staccando pulviscolo che odorava di fungo e pezzi fradici d’intonaco e gesso, che cadevano sulla mia scarpa.
In sogno, Cornelia, ho una chioma molto fitta e robusta, che pettino alla Proust. Figurati la mia faccia sormontata da una ridicola (ma pronunciata) scriminatura centrale.
Lisciandomi i capelli colla mano sinistra, sopra pensiero, forse mi pesai ancor più sul vecchio muro sfarinato e sfondai tutto, rovinando nella camera che stava dietro la parete.
Ripresomi dalla caduta, un poco sorpreso, offuscato dall’odore di muffe, che, sappialo, è un odore inzuppato, poco a poco mi abituai all’oscurità, notando subito un labirinto di sentieri scintillanti sulle pareti e sul soffitto, segno che quel luogo era percorso abitualmente da lumache.
Rialzandomi dovetti battermi vigorosamente i vestiti, per pulirli grossolanamente dai calcinacci; fu alzando lo sguardo che notai un’apertura, all’altezza di due metri circa, che s’affacciava in luogo animato da una luce fioca, appena accennata: hai presente le finestrelle dei vecchi cessi di ringhiera?
Valutai le dimensioni della via di fuga: non potevo tornare indietro, il crollo mi aveva imprigionato e la stanza non aveva porte.
Mi aggrappai all’apertura, nel tentativo di sollevarmi, ma – all’istante – dei graffi mi lacerarono il dorso della mano. Ricaddi nella prigione oscura e lumacosa; udivo, tenue e lontano, il tramestio d’un carro sulla strada.
Il carrò si fermò; poco distante da me, pensai. Riprovai a sollevarmi e ci riuscii. Raspando con le ginocchia sul morbido muro mi trovai fuori.
Mi rialzai. La luce lunare mi permetteva di distinguere: ero lungo un marciapiede. Mi guardai la mano: sembravano graffi di gatto.
Ora: ricordi quel vecchio contadino, alla guida d’un trattore con rimorchio, grasso, che indossava una tuta da lavoro blu e che teneva uno stecchino in bocca, che, ne “La voce della luna”, diceva d’un fiato (con tinte romagnole) – losapevoiochefinivacosì,altrocheballe! -?
Ecco, un personaggio di quel genere, sul carro, redini in mano, mi disse d’un fiato: – E’statalamuccapiccola,fasemprecosìpoiscappadilà! -.
Tutto qui.
Ti dedico questo questo sogno senza capo né coda. Sono certo che ci vedremo, alla mia prima visita nel rudere.
Ti dedico anche l’immagine: un dipinto a olio di Tokuhiro Kawai, che ho trovato per caso. Sembra che abbia posato tu.
 
Ciao Cornelia, sarai sempre nel mio cuore!

  
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