La primavera italiana

Anni fa, in gita nelle terre di Tunisia, vidi infinite volte la foto di cui sopra. Appiccicata sui muri,  incombente si ergeva su grandi cartelloni, o nei locali pubblici; talvolta, sogguardando nelle finestre, la notai anche nelle abitazioni.
Ebbene, per chi non lo sapesse, si tratta del deposto Ben Ali, ex “presidente” della Tunisia.
Ho già avuto modo di esprimere la mia ritrosia, nell’affrontare temi reali; non è inconsapevolezza o agnosticismo. Semplicemente fatico a svolgere i miei pensieri senza l’uso dell’ironia e delle iperboli.
Oggi, però, ci provo, poiché vorrei spendere due parole intorno ai nostri poveri precari. 
Ben Ali, lo vidi quasi sempre intento in quel gesto, con le mani. Posto che lo comprendo: quando si è i soggetti unici d’un ritratto, le mani, (che non possono stringerne altre, oppure abbracciare) non si sa mai dove collocarle e, teniamone conto, in tasca o dietro la schiena, non s’ha da fare; non è educato.
Ciò detto, il gesto di Ben Ali può essere letto inforcando le lenti più disparate: unione, fratellanza, forza, forse anche rivoluzione, termine che – nella puerile retorica dei despoti – fa a gara con Dio, per il primo posto fra i nobili valori ispiratori.
La realtà era tutt’altra: si stava fregando le mani. Si, era così evidente il suo gesto; era incline alla sincerità Ben Ali, si sfregava i palmi, proseguendo sul dorso della mano opposta, per poi tornare reciprocamente ai palmi, nel gesto circolare dell’infreddolito (fatto bizzarro in Tunisia), o nel moto di apprezzamento e pre-gustazione d’un lauto e perpetuo pasto luculliano. 
Sottolineo che, in natura, solo la mosca esegue un gesto simile, circolare, quando pare pulirsi il “viso”. Ora che la scienza ha attentato alla poesia di Luciano Di Samosata, farei notare prosaicamente che la mosca, prima del tiranno, vive in perenne banchettare.
Ebbene, appurato che Ben Ali stava assaporando il suo banchetto sine die (se qualcuno volesse obiettare, faccia pure), vorrei far notare che la primavera araba se l’è portato via; probabilmente il suo sconfinato amore per il popolo non venne apprezzato. Prestando un poco d’attenzione si noterà che a tutti i politici del mondo, talvolta sfugge incautamente questo gesto; persino ai nostri. Per svuotare di senso le mie osservazioni, si dovrebbe prima demolire la filosofia platonica, dimostrando che “ingaggiando” la forza di un’idea, non se ne trascini – con essa – l’influsso di altre collegate e che i poteri non dialoghino sempre fra pari. Liberi di tentare l’impresa immane; a me parrebbe impossibile. 
Ora, i nostri precari. Due appunti per un’italiota e futura primavera: dove finiscono i contributi versati dai precari, assodato che non tornano a loro? Due: il precario che non ha un contratto, perde gli eventuali rimborsi derivanti dalla dichiarazione dei redditi. Niente assegno circolare, niente contanti… nulla. Denari fagocitati dalla macchina statale; forse, nell’ipotesi più sopportabile, si sommano all’entropia universale.
Ebbene, cadendo nella dialettica più bassa, cari nostri governanti, forse è giunto il giorno di mostrare bene le mani. Sempre. 
Che paese c’immaginiamo, derubando i giovani?
Certo, si potrebbe rispondere che “le commissioni insediatesi, nell’approntare il regolamento per cui l’istituzione di apposito fondo gestito dalla Cassa e che bla bla bla bla bla bla…”,  per poi culminare nell’apocalittica e contorta descrizione d’una morte prematura di governo e commissione, oppure chiarire che la risicata maggioranza ha pagato il vile tradimento d’una frangia cattolica e/o che “servirebbero allora X milioni di euro, forse reperibili con un aumento dell’uno per cento del”…
La verità, raramente, è sensibile. Come questa descritta. La nostra società deruba e affama i giovani. 
Fate qualcosa e fatelo subito. E’ compito di chi viene eletto.

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La vita agra del figlio del dittatore

foto del 2010 (Ansa/Epa/Miguel Toran)
Temo sia dura essere il figlio del dittatore.
Il padre leggermente dispotico, la madre della consistenza della mozzarella, oppure sanguinaria (caratteristica acquisita minimo da un rampollo, per ereditarietà), quindi almeno due fratelli assassini (coi quali e fra i quali si gareggia, chi per apparenza, chi per appartenenza, per salire al trono)  e magari una sorella esule in un paese assurto per contrasto a modello di democrazia (?); cioé: cose mai viste, in una normale e noiosa famiglia.
Non parliamo dei moderni figli dei moderni dittatori: Giuseppone Stalin non disponeva, che so, di webcam.
Il moderno figlio del moderno dittatore, oppresso anche dalla tecnologia, non potrebbe, per esempio, farsi una sana pippa in doccia, la mattina; no! E’ da mammole. La micro webcam lo filmerebbe, il padre lo spedirebbe in rieducazione.
Io immagino: Il moderno figlio del moderno dittatore vorrebbe andare a coglier fiori, con un bel cestone di vimini, in mezzo alle farfalle, per poi (e’ sempre un’ipotesi, eh!) farsi coglier, ma da dietro, all’improvviso, chinandosi, dal un brutto ceffo, sporco di grasso e fuliggine, magari controrivoluzionario.
E… nulla, quando l’agreste quadro è quasi composto… Zac!
Il padre del moderno figlio del moderno dittatore, sempre più provato (tiranneggiare stanca), schianta in un giorno infausto di un tristo dicembre: “Il cuore d’acciaio del piccolo gran timoniere, prode condottiero e infinite altre puttanate, s’è arreso all’ultimo scontro e infinite altre puttanate… I programmi vengono ora sospesi a lutto, riprenderanno dopo i solenni funerali col programma “Cucina della rivoluzione”, dal titolo “come cucinare un ottimo ragout di cane in caso di attacco atomico…””…
…E così, mentre la neve imbianca le vette, mentre l’esule sorella s’ubriaca di champagne, mentre la madre prova allo specchio il dolor di stato, mentre i fratelli di rodono dall’invidia, ecco: tocca a lui.
E’ tutto tuo, figlio della rivoluzione e bla bla bla… Fanne buon abuso.

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