…Come il Martini con le Olive


Il trapasso delle illustri personalità religiose apre sempre le cateratte delle emozioni del popolino.
Mai un’osservazione acuta, oppure una almeno ponderata, nessuna ironica, nessuna dissacrante.
Alla notizia della morte di Martini, io mi sono soltanto preoccupato dello stato d’animo delle olive; il che, indirettamente, onora anche l’uomo.
E’ pacifico che le olive soffrano questo distacco, non c’è bisogno di sconfinata cultura; per preservarsi, nel mezzo della buriana di commenti maldestri sull’eutanasia, del “fine vita” mal interpretato da chi non ha idee (e, nel caso ne avesse, non sarebbero chiare), sarebbe bastata una superficiale cultura musicale.
Intendo dire che non è necessario capire tutti i testi di Vecchioni, si sprecano citazioni letterarie e – si sa – qui casca l’asino; serve però memoria. Servirebbe ricordare CanzonenoznaC: “…e ricordava cose antiche
proibite ma pur sempre vive come il Martini con le olive.”

 

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L’isopode del Leopardi


Sabbia rovente, predatori naturali, le onde che s’infrangono, la risacca, il devastante impatto antropico.
In questo ambiente ostile ecco l’isopode, noncurante dei pericoli, esempio cristallino di naturale e sublime incoscienza.
Ho passato molti anni ad osservare questi piccoli insetti saltellare sulla spiaggia, infossarsi, fare capolino da un cumulo, dopo che un solo passo dell’ignobile turista di turno ne aveva sotterrati vari.
Essendo un piccolo crostaceo, la mia indole golosa talvolta prevaleva anche sulla loro grazia; devo confessare con una certa vergogna che ho sempre osservato l’isopode anche con sguardo culinario.
Sono piccoli, molto piccoli, ma sono di un numero incommensurabile.
Potendoli acquistare al mercato ittico, con una scottata nell’olio (senza che l’olio sia bollente) con dell’aglio… Come per le scimmie di mare, due linguine rappresenterebbero uno dei loro degni epiloghi.
Chiusa la parentesi godereccia, questi esserini che, per forma e agilità mi stanno molto simpatici, per quanto mi riguarda, considerata l’ostinazione, la caparbietà dimostrata nel loro sopravvivere, dovrebbero essere soggetto dell’arte… Che so… Protagonisti di un canto; ce li vedo in luogo delle ginestre del Leopardi.

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L’ombrello maggiolino


Faccio parte di quella consistente fetta della popolazione mondiale che non sopporta l’ombrello.
Questa categoria d’insofferenti non va confusa con quella (squisitamente femminile) che tende a smarrirlo.
Sono due faccende affatto differenti: chi lo smarrisce, infatti, lo utilizza. Quando l’irriducibile sbadato non ne fa uso, non è per fastidio, ma unicamente per timore di perdere l’ennesimo accessorio.
Comunque sia: io non lo uso perché mi crea impaccio, è di troppo. Facendo parte della categoria, lo affermo con certezza: la causa è proprio l’impaccio.
I rari momenti in cui la mia convinzione vacilla, sono permeati dalla consapevolezza dello schifo immondo veicolato dall’acqua piovana. La gente non sa, non se ne rende conto, ed è meglio così…
Mia madre raccoglie ettolitri d’acqua piovana e la usa in seguito per bagnare i fiori. Alla natura venefica dell’acqua piovana, aggiunge quindi la nutrita coltura di parassiti, batteri, larve, che si sviluppa facendo ristagnare l’acqua in barili di plastica. A nulla è valso il mio monito.
“Meglio spendere qualche euro in più in bollette!”, le ho consigliato…
Tornando all’ombrello: quando ero un giovincello e le suggestioni indotte dai romanzieri mi marchiavano a fuoco, lessi una descrizione dell’ombrello, scritta da Mishima, in “Stella meravigliosa”.
L’autore, nel motivare la ripugnanza verso l’ombrello, puntava l’indice contro la tensione inaudita della struttura dell’ombrello, contro l’ansia che procura. In effetti, spogliandolo del telo, lo stesso rivela una struttura esile, ma tesa, quasi protesa, resistente e ramificata, con artigli, il che rievoca macabri aracnidi ed altri esseri che, spesso, popolano gl’incubi.
Allora, da giovincello, trovai in Mishima un forte alleato: nessuno più poté discutere la mia avversione verso l’angoscioso ombrello.
Neppure declinando all’inglese (umbrella), neppure quella spolverata di femminile, lo rende risonante con la mia persona. Forse il francese “parapluie”, per la sonorità, addolcisce il clima, ma… Niente da fare; fra me e l’ombrello non c’è alcuna empatia.
Questa mattina, però, sotto la pioggia di maggio (le celeberrime piogge di maggio?), incessante e incattivita, pensando allo schifo immondo che mi stava cascando in testa, ho aperto un ombrello che lascio decomporre in macchina. Non uno tascabile, no. Un ombrello di misura xxl, per intenderci.
E… non so…Forse il vento che sibilando accompagnava la pioggia, forse il mio offuscamento mentale mattutino, forse la confusione di Milano, il traffico ed i clacson… Insomma: ho proprio percepito che, si! E’ Vero! Con l’ombrello adatto si potrebbe volare. Ho avuto la sensazione di staccarmi da terra di un solo micron, ma quanto basta per sentire la leggerezza del volo.
Mary Poppins e Magritte, a loro ho pensato e, riguardo all’ombrello… Mi perdoni Mishima, ma me ne sono innamorato.

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La vita agra del figlio del dittatore

foto del 2010 (Ansa/Epa/Miguel Toran)
Temo sia dura essere il figlio del dittatore.
Il padre leggermente dispotico, la madre della consistenza della mozzarella, oppure sanguinaria (caratteristica acquisita minimo da un rampollo, per ereditarietà), quindi almeno due fratelli assassini (coi quali e fra i quali si gareggia, chi per apparenza, chi per appartenenza, per salire al trono)  e magari una sorella esule in un paese assurto per contrasto a modello di democrazia (?); cioé: cose mai viste, in una normale e noiosa famiglia.
Non parliamo dei moderni figli dei moderni dittatori: Giuseppone Stalin non disponeva, che so, di webcam.
Il moderno figlio del moderno dittatore, oppresso anche dalla tecnologia, non potrebbe, per esempio, farsi una sana pippa in doccia, la mattina; no! E’ da mammole. La micro webcam lo filmerebbe, il padre lo spedirebbe in rieducazione.
Io immagino: Il moderno figlio del moderno dittatore vorrebbe andare a coglier fiori, con un bel cestone di vimini, in mezzo alle farfalle, per poi (e’ sempre un’ipotesi, eh!) farsi coglier, ma da dietro, all’improvviso, chinandosi, dal un brutto ceffo, sporco di grasso e fuliggine, magari controrivoluzionario.
E… nulla, quando l’agreste quadro è quasi composto… Zac!
Il padre del moderno figlio del moderno dittatore, sempre più provato (tiranneggiare stanca), schianta in un giorno infausto di un tristo dicembre: “Il cuore d’acciaio del piccolo gran timoniere, prode condottiero e infinite altre puttanate, s’è arreso all’ultimo scontro e infinite altre puttanate… I programmi vengono ora sospesi a lutto, riprenderanno dopo i solenni funerali col programma “Cucina della rivoluzione”, dal titolo “come cucinare un ottimo ragout di cane in caso di attacco atomico…””…
…E così, mentre la neve imbianca le vette, mentre l’esule sorella s’ubriaca di champagne, mentre la madre prova allo specchio il dolor di stato, mentre i fratelli di rodono dall’invidia, ecco: tocca a lui.
E’ tutto tuo, figlio della rivoluzione e bla bla bla… Fanne buon abuso.

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…Sai com’è Baba…

Nulla da dire intorno alla figura di Sai Baba. Qualche dubbio lo nutro, da quando sono senziente, nei confronti dei talebani d’ogni credo, ma non dubito mai “dell’oggetto” del credo, del simbolo, organico o inorganico che sia.
Chi venera solo Sai Baba e nelle sue parole trova ogni spiegazione, chi per il Cristo fu (è?) pronto a massacrare, chi per Allah, etc…
Comunque: Sai Baba…
Non metto in dubbio nulla: polvere, apparizioni, levitazione. In ogni caso preciso che è semplicemente logico “frugare ” nella mente di chi vede e vive certi fenomeni.
Ma, insomma, riparto: in una spiaggia vicino alla Thailandia, passando la mano nella sabbia in un momento di melanconia, trovai una medaglietta col ritratto dell’immagine, sembrava della porcellana incastonata in un piccolo supporto d’argento.
Era però in bianco e nero, inoltre la sabbia aveva fatto il suo meticoloso lavoro, sbiadendo, appiatendo, limando…
Il fatto è che io ricordavo Sai Baba coi capelli tipo Napo Orso Capo, o Hendrix, ma non così, come nell’immagine. Quindi: prima di tutto non lo riconobbi, poi, l’aspetto del pendaglio (straziato dal tempo)  trasmetteva una dolente sensazione di jella e conseguente jattura, di sfiga per dirla semplice.
Tenni qualche giorno il pendaglio, ma la sensazione bussava continuamente alla mia coscienza, quindi mi decisi e lo buttai.
Lo buttai in un fiume, certo che il fiume tutto macini e digerisca, da una carcassa di lavatrice ad un pendaglio.
Poi, giorni dopo, presi un taxi. Appeso allo specchietto retrovisore ballonzolava quel volto, a colori. Devo dire che mi fece comunque tristezza.
Domandai… Scoprii di aver buttato Sai Baba…Il punto è che i SaiBabani (si chiamano così!) non hanno diffuso l’immagine del venerato, da vecchio. O meglio, non l’hanno diffusa come la stessa del giovane Sai Baba. Quindi chi, come me, ignorava, s’è giocato l’aiuto di Sai Baba, ora che svolazza nei mondi impalpabili dell’aldilà.

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Leggo spesso i commenti di Aldo Grasso, sul sito del Corriere, perché lo ritengo un acuto osservatore della fenomenologia televisiva, e non solo, anche se – non me ne voglia… Ma tanto non mi leggerà – l’immondezzaio infinito della televisione, spesso fa si che le sue mani s’insozzino e che, è questo l’effetto, paia occuparsi di questioni assolutamente futili.
Purtroppo, questa è parte della sua materia. 
Non capisco bene, però, questo suo articolo.
La considerazione sulla scopiazzatura di battute circolanti su twitter, da parte di Crozza, non m’appassiona. Mi pungola, invece, la riflessione breve sull’acquisto di libri di poesia, dopo che Saviano ne tratta in televisione.
Non che voglia difendere Saviano, non ne ha bisogno, ma non comprendo la critica.
Siamo pecore? Si, senza dubbio, non c’è bisogno di Grasso e di Saviano per aprire gli occhi.
L’argomento è anche molto complesso, le regole sottese alle dinamiche delle masse sono spesso ignorate, banalizzate, ma lavorano nell’ombra costantemente.
Essendo pacifico il nostro incedere ovino, perché non gioire (si, gioire) se una trasmissione, in modo pur criticabile, induca all’acquisto di un libro di poesia (fra l’altro, di una grande poetessa)?
Il timore, poi, che si imiti, in ultimo, noi stessi, è più che fondato… Ma dove sta il male?
Intendo dire che, facendo un onesto bilancio, quindi elencando costi e ricavi, meglio un libro acquistato grazie a Saviano, che una lite in famiglia per la nomina di un coglione qualsiasi, “abbandonato” alle telecamere su di un’isola o chiuso in una casa a cinecittà.
Non ci si può lamentare della mancanza di cultura, per poi vivisezionare a scopo demolitorio i tentativi di diffusione della stessa.
Quando un organismo annaspa, quando si ha fame d’aria, una boccata permette di trascinarsi almeno di un passo, per poi sperare sempre in una rinascita futura.

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Contro Natura

All’età di tre anni ebbi in regalo dai miei genitori un cane, il quale, ineluttabilmente, venne chiamato Snoopy.
Anche il cane della mia coetanea e amica Lara venne chiamato Snoopy, anche se di diversa razza, ma, a parte ciò, “allo Snoopy” (slang milanese, come rimarcò Moretti) davo da mangiare del Pongo. Verde, rosso, blu, arancione, giallo… Pongo!
Poi uscivo, con mia nonna e Snoopy. Lui, al parco Solari, si produceva in mirabolanti cacche variopinte, per la mia gioia. Mia nonna, tornati a casa, mi frantumava le ossa a bastonate.
Ora non potrei più farlo: il Pongo inquina, non è biodegradabile. Purtroppo, anche la cacca del cane, quella vera, inquina; chi ha il cane dovrebbe raccoglierla, perché sporca, puzza, porta malanni e, immaginando la ragnatela infinita e sotterranea, generata dalle colature che dipartono da ogni cacca di cane,  probabilmente contribuisce all’inquinamento  della falda.
Quindi: la cacca sintetica non va bene, ma neppure quella organica.
Diciamolo serenamente: la Natura fa male. Le porzioni di Natura, le piccole e stressate aree verdi che innestiamo nell’ambiente urbano, compresi gli animali che ben si sono adattati alla città, sporcano.
I cani defecano nei parchi, gli  uccelli defecano sui monumenti o, come accadde a Roma, milioni di storni possono ricoprire di guano le auto in sosta. Il guano non ripulito, cocendo sotto il sole, intacca la vernice della carrozzeria. E’ una spesa…
I topi portano malattia, si sa, portarono la peste. Rovistano nella mondezza, altro che formaggio! I gatti figliano troppo, poi i piccoli muoiono ai bordi delle strade, contribuiscono a questo lordume fermentante, che infetta, che puzza. I ricci si fanno spiaccicare per le strade, i vermi si suicidano strisciando sull’asfalto con la pioggia, i cani si fanno abbandonare d’estate, poi qualcuno li falcia e… giù nuovo lordume, putrefazione, effluvi pestilenziali. Gli insetti, non ne parliamo.
Inoltre la Natura è cattiva, che non me ne voglia…
Ho visto un cane (bulldog francese) e un pappagallo, questo con le zampette sui bordi della ciotola, che si nutrivano della stessa sbobba.
Domandai cosa fosse quella robaccia colloidale; le bestiole mi risposero con sufficienza: “Boh! Coniglio…”… 

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Il primo coyote insopportabilmente clonato

(foto: AP PhotoYohap, Shin Young-keun)

Il primo e l’ultimo termine di una serie finita possono essere anche sconosciuti. Non sto trattando di matematica, benché mi tenti; purtroppo all’uno (prima unità, dalla quale necessariamente derivano i numeri successivi) segue una serie infinita (pertanto andrei fuori tema). Quello dell’ultimo numero (matematicamente non penso sia sostenibile) è un’affascinante speculazione che tralascio, perché mi dà forti vertigini; non ho la maestria necessaria per trattare l’argomento, ma fior di pensatori hanno già prodotto tonnellate di carta sull’argomento (e questo mi solleva notevolmente).
Senza divagare: per il primo e l’ultimo termine – sconosciuti – di una serie finita si può ipotizzare, intuire, dedurre (inferire) l’esistenza e, più probabile, si può conoscere uno solo dei termini, mentre si presuppone l’esistenza dell’opposto.
Andando al coyote del titolo, che lo scienziato sudcoreano Hwang Woo-suk ha detto di aver clonato: “il primo coyote clonato”, a mio avviso, è una precisazione fuorviante, come, del resto, la prima pecora clonata, è questo il punto!
Dichiarare l’avvenuta clonazione del primo canide sarebbe veritiero, il primo bovide anche, perché si può ragionevolmente pensare che, nel futuro, ne vengano clonati di ulteriori. La validità è conferita dalla molteplicità di specie comprese nelle famiglie Canidae e Bovidae; si può supporre che un’altra specie, nei secoli, verrà onorata con tale replicante privilegio.
Il coyote, povera bestia, lasciamolo in pace. Il coyote non è a rischio di estinzione. Inoltre non è base della dieta di una popolazione, da questo punto di vista è vicino al topo.
“I primi coyote clonati”, lascerebbe intendere che siano i primi di una serie, mentre dubito che ciò avvenga. “Clonati i primi coyote”, invece, potrebbe far pensare alla clonazione dei primigeni, che so… Due fossili identificati come “primi esemplari”, appunto.
Anche “I primi fra i coyote clonati” lo scarterei per questioni cronologiche. Potrà essere notizia in futuro, quando si saranno già clonati “n” coyote.
Per contro, “clonato l’ultimo coyote” non lascerebbe alcuna interpretazione, se non l’unica: l’ultimo esemplare vivente è stato duplicato, vivaddio.
Insomma, per concludere, “clonati dei coyote” mi pare la soluzione più azzeccata. Generica, ma azzeccata, come “clonata una pecora”. Fra le tante, quella. Scelta perché rispondente a precisi requisiti, ma comunque una fra le esistenti.
Penso che l’ultimo ente di una qualsiasi serie finita non crei grossi problemi concettuali. Il primo, invece, sì. Questo pensiero è per me insopportabile.


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Di sguardi bovini

E’ difficile tentare di disquisire intorno a questa definizione, perché l’uso che ne faccio (pertanto naturalmente considero il lato soggettivo) va a toccare temi molto delicati.
Scorgo guardi bovini nell’ammiccare di certe persone, con alcune inclinazioni sessuali. Nulla da commentare intorno alle inclinazioni, ognun per sé. In questo caso preciso che lo sguardo è per me bovino in quanto s’annacqua all’improvviso. Le occhiate si incrociano, una s’annacqua. Ecco il segno. Lo sguardo bovino.
Bovino è anche lo sguardo di chi non capisce. Non intendo la mancata comprensione per problemi casuali o causali d’udito. Mi riferisco al non comprendere derivante dalla mancanza di cultura in merito. Quando non si dispone degli strumenti per capire, allora lo sguardo si fa come smarrito, lo sguardo vorrebbe “bere” dall’occhio dell’interlocutore il senso di ciò che si ascolta, in modo da chiudere il cerchio, ma dallo stesso sguardo assetato traspare soltanto l’oscuro vuoto dell’enigma. Aggiungo che questo caso è ben riconoscibile, perché l’occhio dell’ignorante accusa un tremolio impercettibile, come il nistagmo fisiologico, che rivela la tensione trasmessa ai bulbi dallo stallo della razionalità. E’ un meccanismo semplice: se ci si poggia di peso sul coperchio d’una pentola, contenente acqua in ebollizione, il coperchio è immobile, ma il tremolio causato dal bollore investe la pentola.
Tempo fa ebbi l’intuizione, pensando ad una persona alla quale non posso nemmeno alludere, di definire il suo sguardo da “bovino ingrato”.
All’acquoso vuoto di cui sopra, s’univa l’aspetto orrendo della persona, una donna brutta e sciatta, la cui indolenza eccezionale, incommensurabile, mi permette ora di unirla idealmente ai suoi stessi antipodi, al cui polo geografico presiede – potentissimo – il verso di Borges: “Tu così indolentemente e senza fine bella”.
Questa mia uscita si dimostrò felice, in quanto la definizione si rivelò adatta anche ad altre persone (sia oggetti della definizione, che utilizzatori della stessa).
Non posso che citare, infine, Stefano Benni, il quale dipinse l’immagine perfetta dello sguardo della mucca quando passa il treno. In questo caso (del resto Benni è Benni), non c’è bisogno di alcuna spiegazione.

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