Bucefalo

Osservavo con attenzione il veterinario, indaffarato nel redigere la prescrizione incomprensibile.
La grafia ricordava la strisciata di un cardiogramma. Comprendevo qualche lettera sparsa, leggendo il foglio al contrario, in quanto anche mio padre declinava la grafia verso tali tensioni elettriche.
Mentre un ostinato ronzio accompagnava la penna del medico, riflettevo sul fatto che il tempo (si, sempre lui) fosse la malattia suprema; non v’era dubbio in quei momenti.
E’ la sorgente dei malanni, in quanto scorrazza liberamente nei tre regni della Natura erodendo, scarnificando, sbriciolando, disseccando e polverizzando. La dimostrazione di potenza incontrastabile è la sua azione sul “quarto regno”, cioè quello costituito dalle opere realizzate dall’uomo, che attinge da vegetali e minerali, plasmando gli elementi e producendo enti altrimenti non esistenti.
I nistagmi degli occhi del veterinario m’indispettivano. Fissando quegl’iridi verdi acqua, così vanamente vistosi, seguivo l’accentuato tremore fisiologico, durante la lettura.
Mi rendevo conto che il tempo se ne sbatte della magnificenza della Cappella Sistina, o dell’imponenza della portaerei Washington; figuriamoci cosa possa preoccuparlo d’un bruscolino dell’universo, quale un’autovettura oppure un chiosco per gelati, o delle perfette viti, intorno alle quali s’impernia il sublime meccanismo di un orologio.
Il tempo, nel suo eterno rotolare (una sua frazione è sempre uguale alla precedente, quindi rotola grazie a due soli raggi) esercita la sua ontologica azione, con la pazienza che solo ad esso è concessa, poiché non risulta intaccato dal suo stesso agire.
Il disincanto fu totale, scoprendo che anche Bucefalo era soggetto al macinare dei secondi.
Bucefalo venne datato da un team di esperti (uno dei quali arrivato direttamente dalle Galapagos): si accordarono (lustro più, lustro meno) intorno ai 3.521 anni.
Ereditai Bucefalo da mio nonno, che la ebbe da suo padre e lui dal suo; così a ritroso, affondando nelle sabbie viscose del passato, fino a perderci nella storia persa, in quanto non scritta.
Bucefalo, quando mi venne affidato, aveva circa le dimensioni di un camper. Non aveva nome, ma io ebbi l’ardire, in quanto mi risulta un potere conferitoci, di deciderlo.
Optai per uno che potesse contentare il mio ego.
Anche la montatura degli occhiali del veterinario, che pareva (ironia!) in tartaruga, incorniciando pesantemente gli occhi, attirava la mia attenzione amplificando gli scatti dei bulbi oculari, i quali tuttavia parevano già rallentati, rispetto ad un’ora prima. 
Prova ulteriore della supremazia del tempo fra i flagelli venne a noi fornita (intendo alla mia stirpe) dall’apparentemente immoto tartarugo, del quale un veterinario illuminato rivelò l’imminente fine al mio trisavolo, senza addurre spiegazioni.
“E’ così!” sentenziò sicuro di sé il vanesio, alzando il dito indice destro, puntando verso un angolo del soffitto, lasciandosi sfuggire un lieve sorriso di sussiego.
Così fu, benché – interpreto ora – vi sono differenze fra il tempo della tartaruga e quello umano; il mio trisavolo (che scampò alle battaglie risorgimentali) l’ebbe da suo padre, ma il tartarugo, che all’epoca aveva le dimensioni di una capiente botte, scampò fino ai giorni nostri, non senza mostrare sottilissime incrinature nel carapace e, in generale, nella condotta dell’esistenza.
Le sue pause fra un passo e l’altro erano ormai estenuanti per il tempo umano, già allora, salvo che per i campioni mondiali di scacchi, il cui istante ha consistenza differente, rispetto al nostro, da sempre.
Alludeva (il veterinario ottocentesco) ad una misteriosa goccia, una soltanto, che dall’inizio di ogni cosa, ha potere di scavare la roccia e dunque si tradì: la goccia di per sé non ha potere alcuno, non quanto il susseguirsi di esse, nel tempo; inoltre: è nata prima la goccia o la roccia?
Per questo io, sconcertato e dubbioso, in tempi recenti, mi avventurai incoscientemente e discesi nella tartaruga.
Imboccando la cloaca (ragion per cui mi bardai di tutto punto) scesi lungo un budello a scalini, verso destra, e in lungo corridoio a ferro di cavallo, notai subito una rigogliosa boscaglia di muffe multicolori, da far perdere il senno agli alchimisti; fossi disceso dotato di falcetto d’oro, mirabili ingredienti da pozione avrei raccolto, in quel mondo che virava verso la dissoluzione.
Narrano le cronache, che il veterinario del mio trisavolo seguitava a blaterare banalità sull’ineluttabile, durante la mia discesa da speleologo, ma la sua voce probabilmente s’era già fatta ovattata da un secolo almeno, rimbombava sorda, fino a comprimersi in un grasso ticchettio confuso, per sparire dal novero dei miei stimoli.
Ebbi il tempo di udirlo evocare il paradosso dei gemelli, ma non ne compresi il motivo e forse fu uno scherzo della mia immaginazione, tenendo conto che l’uomo dell’ottocento non poteva conoscerlo.
Girovagando per condotti soffici ma resistenti, costretto a peripezie da contorsionista, ispezionai l’acido stomaco, l’amaro fegato e gli spugnosi polmoni, infine i reni e poi risalii, controllando ben bene la presenza d’infezioni sotto la lingua.
Ora, elencare tutto quanto vidi è complicato, ma tutto fu chiaro, per quanto mi concerne: il tempo, sempre e soltanto il tempo.
Incontrai, oltre alle muffe variegate, presenze filiformi e aggrovigliate, matasse confuse che mostravano una sorta di coscienza, penetrando pareti lise e sparendo nei tessuti circostanti con un rumore simile a quello prodotto dal risucchiare l’ultimo spaghetto del piatto.
Esseri curiosi, senza capo né coda, senza bocca né ano, decolorati, suggevano densi liquidi lattiginosi e contemporaneamente rilasciavano liquami borbottando, mentre altri, più panciuti e dotati d’evidenti fauci, industriosi consumavano lembi di tessuto, parimenti al bruco che s’osserva divorare (lento ma incessante) una foglia.
Il rene era gibboso, grosse papule rigonfie lo acconciavano, il colorito era stanco e lo sappiamo: sorella morte ha delle tonalità a suo uso esclusivo.
Innumerevoli cumuli di solidi geometrici (di sostanza a me ignota) giacevano ammonticchiati in ogni ansa disponibile; a intervalli regolari uno scroscio mi allarmava ed un rotolar di cubi ed ottaedri, dai vividi colori cangianti ma tutti venati di verde acceso, mi sfilava dinnanzi tracciando un lieve solco nella pavimentazione interna della bestia e lasciando sul tracciato un lieve fumo, pungente d’ustione.
Quando il tartarugo inspirava, le arterie s’ingrigivano pulsando; quale e quanta lordura aspirava la bestia, lordura che non si mostra alla vista e della quale lo stesso veterinario quotidianamente fa incetta, respirando (immaginavo, durante la mia assenza, di ritrovarlo vivo) incessantemente?
Risalii lungo la trachea, tutto era comprensibile, nitido lo svolgersi degli eventi.
Ripulito di tutto punto e ben profumato d’acqua di colonia, tornai al gabinetto del veterinario, per discutere di filosofia, ancor prima che di medicina.
Lo colsi immobile, nella posizione d’indicare un punto del soffitto, con le labbra irrigidite nel vocalizzo della “i”.
Un lieve pulviscolo si staccava dalla punta del suo indice, trascinato via da un soffio leggero.
Le falangette del medio e dell’anulare erano sparite.

Una qualsiasi mattina

Una qualsiasi mattina, il nobile Ratteo Menzi, come di buona sua norma, si svegliò all’albeggiare. 
Galli cantavano di là della siepe, schiamazzavano nel borgo, cantavano di femmine e di combattimenti.
Ratteo fece tintinnar la campanella ed alla porta s’affacciò, celere ma soave, il domestico Draziano.
“Draziano, non è già in vigore la riforma Baudelaire?”, domandò Ratteo.
Draziano fissò la solita piastrella sbeccata, sulla quale poggiava un piede del letto, quello prossimo alla porta.
Il povero Draziano sbatté le palpebre, imprimendo un lieve movimento alla chioma appena scarmigliata.
“Dé! Gran Dio!”, lo sollecitò l’incontenibile Ratteo, padrone suo. 
“No-non rammento, Ratteo…”, rispose Draziano balbettando ed accennando ad un inchino fuori luogo.
“La riforma Baudelaire”, lo incalzò Ratteo, già vispo come una donnola e facendogli il gesto di tirarsi su, “dispone che i galli crudi razzolino solo nelle campagne!”.
“Ah, si! Entra in vigore lunedì prossimo!”, ricordò Draziano rilassandosi finalmente in un inchino, per poi uscire, sgambettando verso le cucine, per dare ordine d’approntar la colazione.
Ratteo s’alzò e, immantinente, una fitta rodende si diramò dall’ombelico verso sinistra, scendendo lungo gl’intestini.
Lesto puntò la stanza da bagno, a passi brevi e fitti fitti, contraendo le natiche, ma lo sforzo nulla poté: anche quella mattina si riformò addosso.

  
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La leva del freno

 [fonte]
Fu una lauta cena: deliziosa faraona al porto, seguita o intervallata (ci fu tale libertà) da rollé di coniglio lardellato e uva bianca.
Di contorno gustose patate arrosto tagliate a dischetti: una cottura perfetta. 
Il formaggio (da me portato) fu un divino pecorino con tartufo.
Apparve infine la torta di compleanno, immancabile, non dopo aver spento tutte le luci di casa.
Una perfetta, nella sua semplicità, tiepida torta di mele, accompagnata da un eccellente gelato al fior di latte.
Dal centro geometrico della torta s’ergeva, in luogo di decine di candeline, un piccolo e variopinto candelotto alto una spanna (ricordava il bastone internazionale dei barbieri); un fuoco pirotecnico la cui fiamma, d’un biancore immacolato, sprizzava eccitata, liberando un fruscìo elettrico.
Il festeggiato fece mostra della sua condizione da ex fumatore e soffiò sul candelotto, per zittirlo.
La figlia scattò alcune foto, per immortalare il momento, ed il risultato fu curioso.
Questa fiamma artificiale, incrociando il getto d’aria espirato, rivelava la sua progettazione innaturale, cambiando direzione ad angolo retto, oppure interrompendosi e procedendo ad impulsi, generando segnali di luce di gusto marinàro. 
Ero l’unico invitato; il festeggiato, alla domanda della moglie, su cosa desiderasse avere in regalo, rispose “Carlo”.
Quella veste da regalo era inconsueta, ma la provai ed oggi posso dirla privilegiata; non comprende abusi di nessun tipo, né sessuali, né vagamente ludici, nessun impegno se non l’abbuffarsi in un ambiente intimo, con squisite cibarie ed un vino francese superbo. Per converso, l’incarnare un regalo, unicamente c’investe dell’onore d’essere considerati motivo di gioia e oggetto di ricordo (“Ricordo quel compleanno, quando mi regalarono te!” mi disse sospirando anni dopo; i suoi occhi scintillavano, puntando verso un apparente nulla).
Ciò nonostante, mentre il mio caro amico commosso abbracciava i due figli, distribuendo baci schioccanti, e la figura della moglie si stagliava nella penombra dietro di loro cingendoli tutti con braccia da madre (saggiava il gioioso quadretto con un sorriso grato e lasciava trapelare il suo plauso all’Altissimo, poiché “Si! E’ perfetto, tutto perfetto!”), il momento di felicità suscitò in me un pensiero tragico; un cupo finalismo intorpidì le mie acque.
Madre Natura, fredda ed assassina, spietata m’alitò sul collo; in un momento inopportuno mi rammentò il suo ingrato adoperarsi.
“Povero amico caro…”, pensai.
Ritornai alle nostre meste serate durante il servizio militare; lui guidava tenendo fra le gambe una bottiglia di Caldaro, ormai vuota; s’andava tristi e bolsi per la via che s’incunea tutt’oggi fra due caserme.
Ad entrambi i lati, alte mura e garitte che ingabbiavano stanchi e infreddoliti militari, mentre perdevano i loro giorni; le nubi dei loro respiri erano calde di vita e di grappe.
Fin d’allora e prima ancora (ché già le idee si deteriorano, anche per chi ne rifiuta l’esistenza) ci stavamo consumando, ma non di buon Caldaro e neppure di tisi o fulminante difterite, ma per silenzioso ed omicida intento della Natura, e punto!
Quel costante fermentare e ribollire, sotto la nostra pelle, che produce?
La sera in cui incarnai il regalo, venticinque anni dopo, ancora si percorreva la medesima discesa, chi più rapido e chi meno. Tutti i presenti tentennavano sempre più nello svolgersi dei giorni ed anche l’incedere spensierato dei giovani seguiva la medesima via: un vicolo cieco.
Perciò mi rattristai, nel vederlo aggrappato, caduco, alle gioie lecite e volatili, intanto che neppure il dubbio primo lo sfiorava, quello cioè dell’esistenza di una leva del freno, da cercare ovunque in lui e persino fuori di lui. 
Se la determinazione della fede non ti si addice, almeno hai urlato disperato il tuo dissenso? Hai tentato, tu, il tentatore?
Hai frugato dietro gli armadi? Nel retro della casa? In quella zona nascosta dei giardini, che in genere accoglie cianfrusaglie, come vecchi copertoni e teli di serre, oppure in solaio? Sebben banale, questo è luogo elettivo per ciò che si ricerca, nonché luogo metafisico per antonomasia… Di ciò non stiamo trattando?
In cantina, hai guardato bene? Hai spostato lo scaffale zeppo di bottiglie, fra cui ben tre Château Yquem Grand Cru del 1983? Dimmi, l’hai fatto? Ovviamente –  in questo caso – spero tu abbia agito con con particolare attenzione… 
Ed è mai possibile, amico mio, pensavo, che chi ti ami non possieda questa leva? 
L’hai squartata, lei, scostando gl’intestini? Le hai strappato la colonna vertebrale impugnandola dall’atlante, tirandola con forza verso di te? Hai sentito l’assordante stridore delle ruote del treno bloccate, quando si straziano d’attrito?
Hai guardato nelle prelibatezze culinarie che lei cucina? In mezzo ai maccheroni,  nei monconi di pajata o nelle quaglie, nei loro ventri? Hai sondato con delicatezza nello stracotto, in fondo alla pignatta, nella scaturigine del gusto, prima d’ingurgitare distratto la sacra chiave del tabernacolo, lì celata dal destino? 
Hai chiesto singhiozzando ai figli tuoi, immensamente giovani, d’indicarti la via? 
Dimmi, amico mio: hai fatto tutto ciò?
 

I cubi verdi

Millant’anni fa, quando il veneficio del servizio militare stava volgendo al termine, iniziai a frequentare un gruppo di neo fricchettone, che all’epoca mi affascinavano non poco, per tutta una serie di ragioni immotivate.

Una sera, dopo aver ascoltato i loro vacui discorsi, presi parola e raccontai un’idiozia confacente, cioè descrissi il dramma di un certo “X”, il quale si risveglia in un luogo privo di riferimenti, colori e connotazioni spaziali. Una volta ripresosi, come un corpo che si risveglia dalla metempsicosi (e così citai Proust, ma non se ne accorsero), X non solo si accorse di essere circondato da cubi verdi fluttuanti e fluorescenti, ma di essere lui stesso siffatto.

Fu così, allora, che X apprese la sconcertante verità: X non era un essere umano, ma un cubo di gelatina verde. Tutto il suo vissuto era frutto della sua mente; probabilmente (tuttora non ne sono certo, in quanto non conoscevo e non conosco la fisiologia dei cubi di gelatina verdi) al momento della nascita un grave intoppo lo fece sprofondare in uno stato vegetativo.

Ora, abbandonando le neo fricchettone, la cui reazione positiva al mio racconto le qualificò spietatamente per ciò che erano, il povero X s’era sognato tutto.

Il parco giochi in Via Solari, il cane che mangiava il suo pongo per poi defecare in mille colori, il distributore di semi di zucca e la nonna imbacuccata in una sciarpa color corallo.

Le scampagnate coi genitori, a cercar fossili o funghi, i musei della scienza e l’enciclopedia di casa, con le sue agghiaccianti immagini anatomiche d’uomini scorticati in nome della conoscenza e quel San Sebastiano pluritrafitto, con lo sguardo diretto in alto a destra, da dove proveniva il fascio di luce, lo sceneggiato sugli Sforza ed il loro stesso castello.

Poi, questa immensa matassa d’irrealtà si gonfiava a dismisura, di pari passo col pieno risveglio del povero X; comparivano allora antiche civiltà ch’erano esistite altrove, di là dell’oceano mare, e la consapevolezza delle pagine riempite a descrizione di questi popoli perduti, acconciati con penne d’uccelli mai visti e dai nasi perforati con ossa di ispidi mustelidi, divoratori d’insetti coriacei e anelidi grassi come anaconde. Riaffiorava la consapevolezza della lingua perduta di questi selvaggi, al pari delle lingue straniere ch’esistono ma non si conoscono e in questa babele di cose e voci, s’affacciava il ricordo bambino del dispiacere nell’apprendere che Santa Klaus, al pari dei tappeti volanti e del Barone di Münchausen, era un’innocente menzogna per rallegrare i piccoli.

Altra menzogna fu quella delle presunte conseguenze mortali, una sparata della nonna, per aver ingoiato una pallina di stucco, durante l’apprendimento dell’uso della cerbottana e comparve pure la certezza che il dolore per la lunga fila di morti, dalla prozia paterna (che fumava sigarette strette e lunghe, tenendo un mignolo all’infuori e commentando in francese “il faut!”) ai popoli spazzati via dai cataclismi, fu un dolore vano, suscitato da eventi mai accaduti e che, forse, la razza dei cubi verdi gelatinosi nemmeno conosceva il dolore, imbevuta com’è d’un pneuma che veicola l’atarassia, e di questi concetti nemmeno conoscevano l’esistenza, in quanto fu soltanto X, nel suo lungo sonno, ad inventare la filosofia antica e le teorie contrapposte, sebbene non le avesse mai studiate e fossero rimaste incistate allo stadio larvale, come tenie nel carbonato di calcio (cosa siano gli elementi primi sarebbe un altro argomento monumentale), e gran parte delle velleità, che si consumano rotolando nella discesa del tempo, il quale non esiste nel mondo sospeso dei cubici gelatinosi.

Ebbene questo inaudito labirinto di realtà, completato dalla presenza dell’universo e, forse, di dimensioni parallele, dalle quali connaturate realtà ci scrutano, attraverso un velo puramente ideale, passati gli anni delle neo fricchettone, mi tormenta tuttora, come tormentava allora il povero X.

Negli anni, compreso che non esiste struttura del pensiero senza linguaggio, mi sono chiesto come poteva X comunicare coi suoi simili, senza aver passato i loro misteriosi stadi evolutivi e come potesse allora costruire un universo intero, senza cedere alla schiacciante realtà d’un caso democriteo favorevole.

Saltuariamente aggiungo un particolare dei ricordi del mio flaccido e verde alter ego; ieri sera, infatti, leggendo un racconto della Munro, ho aggiunto: “X non si capacitava del fatto d’essere stato rimbrottato, per aver pronunciato Munro alla francese e non all’inglese, cioè non comprendeva esattamente la ragione per cui un cognome canadese non andasse pronunciato nella lingua principale del paese, paese che – manco a dirlo – non aveva mai visitato; X non digeriva il fatto d’essersi documentato intorno a vicende storiche e colonialiste d’un mondo mai esistito”.

Beh, tutto qui.


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Gli alieni etruschi

Quando fui sottoposto ad un estenuante colloquio con alcuni luminari della scienza, cercai in tutti i modi di convincere loro  della mia sincerità. Ero stato “vittima” di un rapimento alieno, ma loro, con orgoglio e snobismo, deprecavano la definizione in lingua italiana, di cotanto evento d’inciucio intergalattico.
Ogni volta, uno di loro, d’una magrezza malsana, anoressica, con occhialini tondi e bacchette in filo in titanio, si schiariva la voce, interrompendomi, per precisare: “Ehm… Alien abduction!”. 
Io ribattevo, mi si gonfiava la coda, ribattevo che la definizione è tratta da un b-movie. C’era poco da fare gli spocchiosi.
Quindi, dicevo, rapimento alieno, ma in realtà, il termine di “vittima” era fuori luogo. 
Certo, non mi domandarono il permesso. Mi prelevarono mentre ero in coda in autostrada, senza chiedere. Stavo sapientemente confezionando una sigaretta (rigorosamente senza filtro) del mio amato tabacco danese, quando sentii una vibrazione sospetta, l’auto era spenta; ero fermo da almeno venti minuti.
E’ difficile da spiegare: è come se avessi perso i sensi per un istante. Mi ritrovai circondato da uomini (si, uomini) dai gusti  pacchiani, con sgargianti camicie tropicali, lunghe, su pantaloni dai colori troppo vividi e ibridati, abbinati in modo da scatenare ripulsa.
Molti avevano infradito verdi, d’una marca che visse anni fa, sulla terra, un’estate glamour. Altri, sorprendentemente, indossavano completi d’alta sartoria, ma un poco datati, almeno d’un ventennio or sono e mi figurai che, prima di prelevare proprio me, avessero svaligiato uno di quei magazzini cinesi di periferia, maree di orrore e di carabattole.
Stavano tutt’intorno a me, una inimmaginabile luce nera delineava uno spazio, ma non vedevo le pareti e nemmeno un pavimento, ero sdraiato.
Non mi fecero nulla di male. Dopo una serie di prelievi  di sangue e tessuti vari (assolutamente indolori, con curiosi strumenti opalescenti) mi portarono a visitare la nave.
Non saprei descrivere quello che non riuscivo a vedere; quella luce nera mascherava l’ambiente; capisco, può apparire assurdo, ma era luce, viva e nera, come il liquore alla liquirizia.
Dopo quelli che mi parvero una decina di minuti di camminata nel nulla, incuriosito dal silenzio dei miei rapitori e dall’assenza di rumore, mi soffiai il naso: non emisi alcun suono.
Uno degli accompagnatori, con un pacato gesto della mano, da direttore d’orchestra, accese una lampada che rischiarò il luogo. 
Un tempio. Mosaici dionisiaci sotto ai miei piedi e sulle pareti. Frammenti di bassorilievi etruschi, statue, maiali liberi grufolavano e sporcavano. Le ghiande calpestate dagli ungulati non crepitavano. Altre rotolavano mute.
Una scrofa dalle dimensioni inaudite si pasceva d’un pastone orribile a vedersi, che emanava un tanfo da cucina di caserma. Intorno alla scrofa uno steccato le impediva di allontanarsi.
Circondando la gravida, un gruppetto di alieni dormiva sonni profondi, affondati nella certezza che la scrofa avesse rivelato loro il futuro.
“Porca boia!”, pensai… Questi avevano saccheggiato un museo. Forse possedevano una tecnologia, per cui, per uccidere la noia, se ne andavano a trovare tombe etrusche, coi loro marchingegni zeppi di cannule alla luce nera; s’erano fatti una discreta collezione.  Oppure, infine, erano etruschi, il che non avrebbe senso, se non per il fatto che io sono un illustre etruscologo. 
Mi sorpresero allora i miei esimi colleghi (notai che uno assomigliava a Marx), quando mi risero in faccia, grossolanamente, e senza ritegno, alle mie spiegazioni. Un paio contrassero il viso impercettibilmente e, pur lodandone l’autocontrollo, colsi il disappunto. 
Gli alieni sono etruschi, oppure vivono una passione per quella cultura. 
Nulla… Si stupirono, al contrario, quando raccontai della presenza del divin suino.
Mi cacciarono in malo modo.
Per due mesi il Magnifico Rettore, a sorpresa, fece capolino fra gli studenti; seguì diverse mie lezioni, per appurare che il mio cervello non volasse troppo spesso con maiali cosmici. Rischiai il posto, insomma.  
Uno dei summenzionati inquisitori accademici, tre mesi dopo la mia gita spaziale, assieme a dei suoi compari, vanagloriosi attivisti,  portò dei maiali a defecare in un campo, in modo da impedire la costruzione di una moschea.

Visioni desertiche

[fonte

In passato presi molto seriamente l’etnobotanica.
Questa affascinante materia mi consentiva di reperire informazioni attendibili sulle lisergiche possibilità offerte dal regno vegetale.
Non mi spinsi mai, per le stesse ragioni, nel regno animale. Troppo complicato.
La soluzione più comoda, indirizzando il mio visionario desìo verso gli animali, sarebbe stata quella di farmi tarantolare, ma, ahimè, ho difficoltà ad approcciare gli aracnidi, tanto che guardo con profonda angoscia le arachidi, a causa dell’inquietante assonanza.
Mi meraviglio che nessuno della beat generation abbia considerato la possibilità che le arachidi (in particolari condizioni) possano cacciare sei zampette pelose.
Neppure il caro William S. Burroughs, che di visioni se ne intendeva non poco, pensò ad una innocua nocciolina che diviene ragno; occorre ricordare, però, di tutto rispetto, nel delirante The Naked Lunch, la macchina da scrivere che muta in scarafaggio (per me, uno scarabeo), cacciando un fallo sovrumano che farebbe invidia a John Holmes.
Di grande rilievo, tra l’altro, la trasposizione su pellicola di David Cronemberg.
Un rimpianto che ad oggi mi accompagna, in fatto di visioni indotte da bestioline, è quello di non aver leccato il Bufo Alvarius, il placido rospo che prospera nel sud degli Stati Uniti e nel Messico, le cui secrezioni ghiandolari contengono: N-dimetiltriptamina, bufotenina, S-metossi-Nmetiltriptamina, 5-idrossi-triptamina, 5-idrossi-Nmetiltriptamina, ldeidrobufotenina, bufotalina, la bufotossina e l’epinefrina.
Il compianto Jerry Garcia (vedi anche qui) descrisse con melanconico afflato gli effetti del DMT, che venne sintetizzato partendo dalle rospine secrezioni, e che si diffuse fra i fricchettoni degli anni ’60.
Impensabili macchinari bio-meccanici, sbuffanti e sferraglianti, comparivano invadendo con ingenua prepotenza la nostra presunta realtà oggettiva; in brevissimo tempo se ne tornavano da dove erano venuti, scomparivano rapidamente, mostrando l’aspetto deludente del DMT:  l’alterazione è fuggevole.
Quindi, riprendendo il filo, le mie scorribande nelle altre visioni della realtà (nessuno ha mai provato che non lo siano) non sono state risultato d’avventure salgariane.
Al massimo mi sono spinto sui nostri monti a brucare funghi.
Mi capitò però d’essere in Giordania e, da qualche parte intorno a Wadi Musa, d’incontrare un beduino appollaiato su di una roccia. Era il tipico uomo dall’età imprecisata. 
Pareva vecchio: la pelle brunastra e raggrinzita era solcata da profonde tracce d’aratro, ma il suo sguardo emanava lo scintillio d’un giovane. 
Il sole bacia i belli, si dice, ma è il bacio di Giuda.
Il beduino estrasse un fazzoletto rigonfio dalla tasca. Poi estrasse delle cartine e si confezionò con rara maestria una sigaretta. Il contenuto del fazzoletto era un’erba verdissima; sembrava fresca.
Io, pregustando un volo radente sui templi di Petra, mi avvicinai e gli chiesi di farmi provare il suo prezioso viatico per il migliore dei mondi possibili.
Non so in che modo ci capimmo, ma il giovane vecchio preparò una sigaretta e me la diede. Io la accesi, con una profonda inspirazione: fu come respirare il fuoco puro. Le fiamme brucianti mi stroncarono il respiro, iniziai a tossire convulsivamente, piegandomi dal dolore e dall’affanno.
Il giovane vecchio mi guardò e mi disse: “No sfff, no sfff!”, mimando il gesto d’aspirare. Poi me lo mostrò, tirando una piena boccata, lasciando che il fumo defluisse dall’angolo della bocca, senza assorbirlo minimamente.
Io lo guardai, feci il gesto universale dell’avambraccio che va su e giù e domandai in italiano: “Ma che c****o è ‘sta roba?!”.
Il beduino sorrise e, con la mano spalancata, m’invitò a guardare intorno.
“Mmmmh, mmmmh!”… Indicò l’erbetta che, indomita come la ginestra, spuntava in sparuti ciuffi qua e la, nel paesaggio riarso e sabbioso di quei luoghi.
Era erba, semplicemente erba di campo.

L’intossicato da Dio


L’intossicazione esiste, quale effetto tossico d’un agente qualsiasi, basterebbe sfocare all’estremo il proprio sguardo per immaginare nella primigenia fanghiglia da cui tutto prese forma (non me ne vogliano i creazionisti) una molecola neonata disfarsi all’incontro con altra combinazione di elementi, sua antagonista, e ancor prima (non in senso temporale) pensare ad un “quantum” alterato dall’azione di un suo pari.
Il tossico, per farla breve, è la nostra fine, non soltanto nel caso d’avvelenamento. Scampiamo alla fina da tossico soltanto nel caso di morte per traumi spaventosi e repentini; quelli che fulminano all’istante, quelli che, per citare Petrolini, ci fanno morire guariti (o sani).
L’avvelenamento è out. Di moderni ricordo il caso Litvinenko, che annaspò nel suo sudario, avvelenato da polonio 210; agente tossico, radioattivo e incontrastabile.
S’è citato il suggestivo defunto, per sospetti intorno alla dipartita di Berezovsky; tutti nel mondo, odoravo ciò, fremevano all’idea d’una morte per veleno, ma le notizie, poi, hanno indicato quale causa un suicidio per impiccagione; invero è ben più nobile di quello per premeditazione (“che stronca per eccesso di”), ma rimane lontano, per stile, dall’effetto del tossico, autoinferto o meno.
Null’altro s’è saputo in merito ad Arafat, per il quale la moglie insinuò analogo tossico tranello, ma segnalo che all’epoca della partenza del caro Yasser un quotidiano gratuito riportò i bisbiglii intorno alla morte per irradiazione satellitare. Fine importante, avveniristica, neppure Verne mi risulta che ci pensò: il contrario allora del nobile veleno. Per i compatrioti segnalo Sindona, il cui rocambolesco avvelenamento profumò di mandorla e d’impresa di altri tempi. Tutto ciò, lo sottolineo, a dispetto della tragedia. Evito di gironzolare nella storia e nella letteratura; bastano Socrate e la madama Bovary, per celebrare l’arte sublime del tossico.
Il ricorso al tossico è ormai desueto, per gli umani, ma non per me: io vedo chiaramente gli effetti della più subdola delle intossicazioni esistenti in Natura; essa è eterna: l’intossicazione “da Dio”.
Alcuni m’accusano di blasfemia, altri di vilipendio della religione, e io fatico a dare un ordine d’importanza alle due infamanti accuse, in quanto svuotate per me di senso.
Come tutte le intossicazioni, infatti, l’agente intossicante – di per sé – non ha colpa alcuna, per cui non comprendo come si possa perseguire il sottoscritto.
Il cianuro, dall’affabulatore aroma dolce, in sé non possiede cattiveria.
Il cadmio, l’elemento primo, in natura se ne sta impastato con lo zinco; è mattone, inoltre, della dorifora e dei veleni mortali di certe serpi, ma nessun proprio intento omicida lo spinge a nuocere all’essere vivente.
L’amanita phalloides, povera cara, sviluppa il suo ammirevole carpoforo nelle boscaglie; svolge quindi con zelo incondizionato il proprio ruolo di parassita e, in quanto parassita, null’altro ha da fare se non parassitare.
Orbene: quando la famigliola felice vien sterminata dall’amanita citata, per intossicazione che scioglie fegato e reni in poche ore, non vi è colpa nel fungo (a meno che qualcuno scorga immanente nell’esistenza una colpa).
Alla stessa stregua non mi si deve lapidare per aver concepito di descrivere l’intossicazione da Dio.
Per andare al nocciolo, e forse aver salva la vita, ribadisco che chi patisce l’intossicazione, e soltanto lui, ne paga doppiamente il fio.
La prima colpa è l’essersi intossicato, l’atto intossicante, l’incauto errore di raccogliere il fungo mortifero, di passeggiare sul Monte Amiata in prossimità dei fumi assassini, infatuato dai racconti popolari sulle pesanti nebbie tossiche. Esiste anche l’errore (esiste in quanto ente a sé)  di caricare ben bene la stufa, ma senza pulire la canna fumaria e così via…
La seconda colpa (di tipo squisitamente morale) è l’abbassare la guardia rispetto alla possibilità di lasciarsi intossicare.
La seconda colpa, in aggiunta, ha conseguenze gravissime, creando una valanga educativa e generazionale; ci si lamenta di alcune correnti politico-sociali, per esempio, che senza alcun dubbio hanno condizionato e ingrossato la sotto cultura già diffusa, ma pochi mea culpa risuonano, per non aver educato i propri figli a leggere fra le righe degli eventi (dei quali, sia detto una volta per tutte, gli scritti in bianco sono ben più importanti di quelli vergati con inchiostro nero).
L’intossicato da Dio, per spiegarmi prima d’essere raggiunto dalla polizia religiosa, è colui il quale fiuta lo Spirito a chilometri di distanza, come un pluripremiato segugio, e, a differenza dell’osannato cane, che fiuta per cercare, per mangiare, per possedere, per avere un premio rinforzante dal padrone, l’intossicato da Dio fiuta per collocare gli eventi, i concetti, le idee, nell’ascientifica categoria della Spiritualità e affini.
Per essere limpido, l’intossicato da Dio, non fosse per l’esistenza della televisione e del telefono cellulare, potrebbe negare l’esistenza dell’energia, in quanto contrassegnato – come lo Spirito – dall’attributo dell’invisibilità, ed è questo il caso dell’intossicato stolto, che ignora l’esistenza dell’universo matematico.
L’intossicato da Dio, ma istruito, lo si affermi chiaramente, non può considerare come possibile un evento che non sia riconducibile ad un modello matematico ben collaudato, anche se – fra questi intossicati – taluni ammettono che l’esistenza di un fenomeno,  o la non esistenza dello stesso, abbiano il medesimo valore di fronte al vuoto sperimentale (che, pare, sia una condizione meramente transitoria).
Questa casistica d’intossicazione, al pari delle altre, non ha un bersaglio principe; capita che le intossicazioni trovino un terreno favorevole, ma non per questo, delle stesse, si possono esaltare l’arguzia e la pretattica. Non si esalta, al pari, il granello di senape che cade nella terra umida e grassa, germogliando. Certo non alludo a volontà superne, poiché tali riferimenti, trattando della divina intossicazione, renderebbero insensato l’intero mio discorso.
Un seme cade in un luogo, oppure in altro, unicamente per combinazione d’infiniti calcoli fisici, e punto.
Rimanendo al seme, ed alla ragione prima della traiettoria del suo volo, s’incontra l’intossicato che risponde sciattamente: “Io non ci credo a quelle robe lì….”, ma pure colui il quale può sciorinare un saggio di epistemologia a supporto dell’apparente scetticismo (apparente, poiché termine da adoperare con estrema cautela).
Insomma, per concludere: l’intossicato da Dio è quel soggetto il quale, quando annusa puzzo d’impalpabilità, ripone l’ipotetico evento nello scatolone delle bufale,spesso nell’attesa che altri stabiliscano la verità.

Upload, novembre 2013: s’è diffusa la voce che l’analisi dei resti di Yasser faccia pensare ad un avvelenamento da Polonio.

 
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La primavera italiana

Anni fa, in gita nelle terre di Tunisia, vidi infinite volte la foto di cui sopra. Appiccicata sui muri,  incombente si ergeva su grandi cartelloni, o nei locali pubblici; talvolta, sogguardando nelle finestre, la notai anche nelle abitazioni.
Ebbene, per chi non lo sapesse, si tratta del deposto Ben Ali, ex “presidente” della Tunisia.
Ho già avuto modo di esprimere la mia ritrosia, nell’affrontare temi reali; non è inconsapevolezza o agnosticismo. Semplicemente fatico a svolgere i miei pensieri senza l’uso dell’ironia e delle iperboli.
Oggi, però, ci provo, poiché vorrei spendere due parole intorno ai nostri poveri precari. 
Ben Ali, lo vidi quasi sempre intento in quel gesto, con le mani. Posto che lo comprendo: quando si è i soggetti unici d’un ritratto, le mani, (che non possono stringerne altre, oppure abbracciare) non si sa mai dove collocarle e, teniamone conto, in tasca o dietro la schiena, non s’ha da fare; non è educato.
Ciò detto, il gesto di Ben Ali può essere letto inforcando le lenti più disparate: unione, fratellanza, forza, forse anche rivoluzione, termine che – nella puerile retorica dei despoti – fa a gara con Dio, per il primo posto fra i nobili valori ispiratori.
La realtà era tutt’altra: si stava fregando le mani. Si, era così evidente il suo gesto; era incline alla sincerità Ben Ali, si sfregava i palmi, proseguendo sul dorso della mano opposta, per poi tornare reciprocamente ai palmi, nel gesto circolare dell’infreddolito (fatto bizzarro in Tunisia), o nel moto di apprezzamento e pre-gustazione d’un lauto e perpetuo pasto luculliano. 
Sottolineo che, in natura, solo la mosca esegue un gesto simile, circolare, quando pare pulirsi il “viso”. Ora che la scienza ha attentato alla poesia di Luciano Di Samosata, farei notare prosaicamente che la mosca, prima del tiranno, vive in perenne banchettare.
Ebbene, appurato che Ben Ali stava assaporando il suo banchetto sine die (se qualcuno volesse obiettare, faccia pure), vorrei far notare che la primavera araba se l’è portato via; probabilmente il suo sconfinato amore per il popolo non venne apprezzato. Prestando un poco d’attenzione si noterà che a tutti i politici del mondo, talvolta sfugge incautamente questo gesto; persino ai nostri. Per svuotare di senso le mie osservazioni, si dovrebbe prima demolire la filosofia platonica, dimostrando che “ingaggiando” la forza di un’idea, non se ne trascini – con essa – l’influsso di altre collegate e che i poteri non dialoghino sempre fra pari. Liberi di tentare l’impresa immane; a me parrebbe impossibile. 
Ora, i nostri precari. Due appunti per un’italiota e futura primavera: dove finiscono i contributi versati dai precari, assodato che non tornano a loro? Due: il precario che non ha un contratto, perde gli eventuali rimborsi derivanti dalla dichiarazione dei redditi. Niente assegno circolare, niente contanti… nulla. Denari fagocitati dalla macchina statale; forse, nell’ipotesi più sopportabile, si sommano all’entropia universale.
Ebbene, cadendo nella dialettica più bassa, cari nostri governanti, forse è giunto il giorno di mostrare bene le mani. Sempre. 
Che paese c’immaginiamo, derubando i giovani?
Certo, si potrebbe rispondere che “le commissioni insediatesi, nell’approntare il regolamento per cui l’istituzione di apposito fondo gestito dalla Cassa e che bla bla bla bla bla bla…”,  per poi culminare nell’apocalittica e contorta descrizione d’una morte prematura di governo e commissione, oppure chiarire che la risicata maggioranza ha pagato il vile tradimento d’una frangia cattolica e/o che “servirebbero allora X milioni di euro, forse reperibili con un aumento dell’uno per cento del”…
La verità, raramente, è sensibile. Come questa descritta. La nostra società deruba e affama i giovani. 
Fate qualcosa e fatelo subito. E’ compito di chi viene eletto.

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Delle ideologie e di altre amenità


Ammetto che il vizio di qualificarmi per esclusione è ormai radicato in me, allo stesso modo ammetto che potrei appellarmi all’onestà intellettuale, per giustificarmi; qualunque sia la spiegazione di questo mio “annacquarmi”, chiarisco di non essere un politico, uno storico o un filosofo.

Libaratomi da questo peso, vado al dunque: oggi giorno, complice – a mio avviso – la diffusione scientifica di una diruta sottocultura umanistica,  tutto è analizzabile e riducibile a due stracci di considerazioni, di superficie, scontatissime, elementari...
Rimarcando ciò che non sono, al mio rozzo sguardo appaiono dei precisi colpevoli (feudatari, cavalieri e altre figure che la sottocultura porta a considerare estinti,  tuttavia vivi, in piena attività).
Vien da sé, benché io non appartenga a tutta una serie di esperti, che tali colpevoli nascano e properino in un ambiente favorevole. Come Natura impone, allora, una forma vivente cerca di crearsi le condizioni per prosperare. La solita spirale.
Giusto per citare “qualcuno”, il caro PPP, all’indomani dell’esito referendario sul divorzio, manifestò il suo pensiero, indicando l’esito come risultato del mutamento dei valori dei ceti medi, ormai sposati al consumo, al falso benessere, soggiogati ad un nuovo potere che si stava pian piano strutturando, vaporizzato in atmosfera dai mass media, sottolineando che nessuna fazione politica aveva vinto (quindi nessuna aveva perso), ma attribuendo la vittoria a questo embrione di potere, in rapido sviluppo.
Ecco: PPP era marxista. Se qualcuno preferisse (o meglio comprendesse) era comunista. Profetico, lungimirante e marxista.
Ora, aggrappandomi alla sottocultura che m’intossica l’anima (per ora respiro), faccio notare che PPP non si poteva risentire, quando qualcuno gli appioppava l’epiteto di “comunista” e ciò per due motivi: anzitutto lo era, in secondo luogo il comunismo, allora, esisteva. L’ideologia per il buon nome della quale fu espulso dal partito, per presunti atti omosessuali, era ai tempi viva, nel pieno dell’età adulta, che s’avvicinava alla vecchiaia.
I celeberrimi insulti di Giannini alla Melato “bottana industriale, socialdemocratica”, che ai sottoculturati scatenano solo risate, sono la riprova che in quegli anni l’ideologia era una linfa che nutriva la concretezza, poiché la socialdemocrazia, per i cuori che palpitavano all’unisono col PCI, era una possibilità tragica di deriva.
Quindi, il caro PPP non poteva pre-vedere che il potere da lui intravisto, avrebbe (quarant’anni dopo) agitato lo spettro del comunismo, soltanto per scaldare gli animi sottoculturati e “ben guidarli” contro un nemico inesistente.
Neppure poteva immaginare che alcune vittime di tale idiota aggressione (potremmo scrivere “i socialdemocratici”?) si sarebbero difesi invocando la minaccia fascista (oppure lo ha predetto e pre-scritto; io, ignorante, non l’ho letto).
Ebbene, facciano un po’ ciò che a loro pare; io non posso fermarli. Ho facoltà però d’indignarmi, quando qualcuno mi da del comunista (o del fascista, ma questo non è ancora accaduto, ad oggi), attribuendomi idee che il tempo ha provveduto a rinsecchire, le quali non sono semplicemente irrealizzabili; si sono addirittura estinte nella nostra società, sono pesci fuor d’acqua, rimangono impresse nei libri, che il potere percepito da PPP guida scaltramente a non leggere.  Il mio cuore “pende” verso sinistra, per una serie di motivi, ma non mi faccio coglionare da voi.
Riconosco, in quanto li vedo, gruppuscoli e frangiucole di irriducibili, d’un colore o dell’altro, ma in Italia – per ora – nulla determinano e qualora dovessero aumentare, date le condizioni sociali, sarebbero comunque morti viventi. Tanti, viventi, ma morti. Sarebbe come vivere una delle notti horror, in cui i cadaveri si animano. Passata la folata, tornerebbero a dormire.
Insomma, dovendo darmi del “qualcosa”, “qualcosa” di estinto, siate fantasiosi: morto per morto, preferirei essere additato come fenicio, etrusco, antico romano, ateniese e, malgrado stia abbassando la guardia, sumero.   

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Enzo

la scomparsa di mia nonna paterna, nel maggio del 1994, fu per me un momento importante, di crescita, di rottura, un balzo in avanti; tutto questo malgrado l’immenso dolore che mi colpì.
Sono cresciuto con mia nonna, viveva con noi. I miei genitori lavoravano e lei badava alla casa, e a me.
Ricordo sempre, percependo una fitta, quando certi rari sabati, all’uscita dalla scuola (era la prima elementare), provavo delusione perché – come tutti i giorni – mi attendeva mia nonna invece di mio padre, al quale spettava quel giorno.
E’ questa una fitta tenue, ma che vien dal profondo. Stupida, oltremodo stupida. Ero un bambino, per cui l’emozioni – almeno allora – non venivano filtrate e bloccate da sovrastrutture antropiche, sociali. Quelle che ora, per chiarirci, non mi permettono di mordere selvaggiamente la carne dell’esistenza e mi provocano lievi attacchi di dermatite sulle braccia.
Eppure mi lascio pervadere da queste ambientazioni infantili e mi ritrovo là, sulla scale della scuola, scorgendo mia nonna col suo foulard ricamato, fra le persone che attendono i bimbi.
Stupidamente, allora, penso che vorrei rivivere quegli istanti, per provar piacere nel vedere la mia cara nonna, che ora penso sia tornata al fuoco totale, alla fucina universale.
Fu, quindi, un evento importante, perché per la prima volta compresi (anzi… tastai) la morte. La morte c’è, allora… Questo pensai. Nulla fu più come prima.
L’anno seguente, poi, scomparve un amico di famiglia, un amico di mia nonna e dei miei genitori. Un uomo sulla settantina, restauratore di mobili, che aveva una bottega d’altri tempi, col camino incrostato di colle centenarie ed un paiolo perennemente in ebollizione, con altrettanta colla pronta all’uso. Ricordo che la bottega era su due piani: il secondo non lo vidi mai; non mi facevano entrare per la presenza di macchinari pericolosi. Da bambino passai molte delle mie giornate in quella bottega, alla quale si accedeva dal salone dell’abitazione, in una casa – si dice – costruita nel 1400.
In quella casa ci visse a lungo la famiglia di quell’uomo, i suoi nonni addirittura.
Quando mio padre, bambino, era solo (suo padre non tornò dalla campagna di Russia e mia nonna era in sanatorio) venne accudito da loro, come un figlio.
Ebbene quando quest’uomo ci lasciò, dopo una lunga malattia, al momento della tumulazione piansi. Mio padre mi guardò stupito. “Non piangi mai…” mi disse.
Piansi perché con quell’uomo si chiudeva un libro, il libro della mia infanzia. Tutto era svanito, nel nulla, in quel nulla che poi ho cercato in qualche modo di penetrare, per sorvolarlo, forse.
Ebbene io non so scrivere necrologi, non è il mio mestiere. Non ho la lungimiranza della penna colta e sensibilmente fredda, e non ho bell’e pronto un coccodrillo nel cassetto.
Inoltre, questo mio modesto spazio web non è albergo di faccende serie; non mi esprimo bene, intorno a faccende serie.
Mi sono infatti ripromesso di non scrivere più nulla di cronaca, di ogni tipo. I commenti che suscita in me la cronaca, li trovo poi sempre banali, giudizi di scorza, che mai arrivano alla polpa. Inutili, per farla breve.
Questa volta non posso farne a meno e concludo:
per me con la scomparsa di Jannacci si chiude il libro di Milano, l’ha chiuso lui, come fece Renzo quando si portò con sé la mia infanzia.
Quella Milano dove sono nato, oggi, ha perso l’ultima tessera; tutto è diverso, il nome rimane, ma la città è un’ altra ormai.
I giorni sfilano inesorabilmente, noi procediamo anche nell’immobilità.
Con le lacrime agli occhi ti scrivo. Da qualche giorno, curiosamente, fra le tue canzoni che ciclicamente mi tormentano era il turno di Musical.
“Davanti al bar di un locale cinese che io… Con una voglia di pasta col pane che riempia… Magari un bidet…”.
Ciao Enzo e grazie, grazie, grazie…     

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