Lo scaltro Persico

Nei nostri laghi sguazzano, filtrando acqua dolce mista a mestizia industriale, ben tre pesci Persici noti.
Uno, il più pregiato, suo malgrado, Perca fluviatilis, s’è affrancato dall’essere fonte d’ispirazione metaforica e allegorica, immolandosi sulle tavole d’ogni tempo, fuso in un delizioso risotto. Spesso, i ristoranti che deturpano le sponde dei nostri laghi sventolano ammiccanti il vessillo del “risotto al pesce persico”, e punto.
Punto perché, per quanto esposto, questi lo si chiama “Persico”.
Nessun aggettivo s’aggiunge, neppure serve il sostantivo “pesce”, poiché chi vien dalla Persia è Persiano e non Persico e l’omonimo golfo è lontano, ragion per cui non lo si può confondere. Aggiungo che il Persico è endemico; sarebbe grave offesa al pesce farsi confondere da orientaleggianti richiami.
Il Persico, allora, è la miglior rappresentazione di sé; gode dell’immensa fortuna di autodefinirsi per ciò che è, grazie alla delicata massa cellulare confinata fra le squame.
Vorrei, allora, soffermarmi sui restanti due Persici, e forse ce ne sono altri, ma io non li conosco, comunque non sono entrati nel linguaggio comune dell’uomo lacustre.
Il primo è il Persico Sole, che il volgo chiama “gobbetto”, “gubét” in dialetto. Arriva dall’America.
Il secondo è il Persico Trota, il “boccalone”, “bucalùn”. Anch’esso vien dall’altro continente.
Ebbene il Persico Sole, un pesce esteticamente molto bello, dagli sgargianti colori giallo-arancioni, traversato da striature azzurre, con una splendida macchia nera, sporcata di rosso, all’estremità delle branchie, il Persico Sole, dicevo (Lepomis gibbosus) è apprezzato a tavola, ma ricco di robuste resche, per cui da molti snobbato; aggiungo che la sua splendida livrea gli permette, talvolta, di vivacchiare pensionato in acquario.
Questo Persico minore è la gioia dei bambini, educati fin da piccoli alle sevizie ed all’insensibilità, poiché abbocca con estrema facilità; non di rado infatti scorge il luccichio dell’amo nudo e ci si fionda, senza spreco di esca alcuna.
I bimbi, avvezzi ormai alla crudeltà, dapprima gioiscono per le facili prede, poi le torturano in modo disumano, annoiati dal continuo abboccare di queste bestiole.
Insomma, il Persico Sole, povera creatura, abbocca sempre all’amo. Non è smaliziato, non riflette, pochi stimoli ambientali gli risvegliano istinti autoconservativi.
Il Persico Trota, invece, ha aspetto e abitudini ben diverse; più grosso rispetto al Sole, affusolato, con colori metallici e meno accesi, che ben lo celano ad occhi di vittime e nemici, ha una gran bocca, essendo un predatore così vorace da prodursi addirittura in episodi di cannibalismo.
Il Trota, allora, che volgarmente viene chiamato “boccalone”, per pure questioni anatomiche, vanta un nome semanticamente instabile; il boccalone, in dialetto, è infatti diventato il credulone, dalla grande bocca nella quale ci può entrare di tutto: anche gigantesche scempiaggini sono prese per verità, dal boccalone. Quand’ero infante non di rado udivo “Sei un boccalone!”.
Qui l’etimo confonde: pare che sia un toscanismo, che derivi da “bocca”, una grande bocca spalancata, boccalone è anche il bimbo che strilla sguaiato. Potrei ipotizzare, che il Persico Trota s’è guadagnato il nome “boccalone” e non il contrario (è giunto qui nell’ottocento), ma poi il significato si è evoluto nel credulone-boccalone.
Non è chiara la ragione per cui non sia il Persico Sole un boccalone, in quanto abbocca (come descritto) anche all’amo nudo e, se ne deduce, ad ogni tipo di esca e, figurativamente, il poveraccio si beve ogni enorme idiozia.
In luogo di “boccalone” potremmo usar “gobbetto”, per indicare colui al quale ogni stupidaggine pare veritiera, salveremmo così (sia ben chiaro: letterariamente) i gobbi dall’estinzione, ma di questa moria ne tratterò in futuro.
Il Trota, quindi, è più scaltro, la sua cattura richiede un poco più di mestiere, non è “gioco per donne e per bambini”, che la Grande Opera persino accettava, nei lunghi mesi di solo mantenimento della temperatura del Forno.
Il Trota è però assiso sul trono dei coglioni, senza possibilità di abdicazione, a causa dell’accezione popolare del suo nome.
Allora il Persico, quello per antonomasia, di fatto parrebbe più attento. Non lo si descrive come un povero idiota e comunque non ha ispirato metafore poco edificanti.
Sarà forse per il nobile risotto, ma il Persico sembrerebbe d’un grado superiore, più evoluto, tanto da provare scetticismo.
Ce lo vedo che guarda di sbieco un succulento verme che annaspa infilzato, che poi immaginate quant’è complicato per un pesce guardare di sbieco.
Lo immagino che, con un colpo di reni (i pesci hanno i reni, eh!) sfila di fianco al verme traditore, rimuginando un altezzoso “Mh…”…
Nitidamente lo seguo notare una bestia ben più grassa del lombrico, rapida e luccicante, con un’appendice sfarfallante, avventarcisi contro e finire uncinato dallo sleale “cucchiaino”, oppure guizzare spocchioso lontano dall’esca e finire, assieme ai villani suoi consimili d’acqua dolce, nella rete dei pochi superstiti pescatori di lago.
Insomma, il Persico non è il gobbetto, non è un boccalone, è pregiato e snobista, ma finisce disciolto nel risotto.

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L’intossicato da Dio


L’intossicazione esiste, quale effetto tossico d’un agente qualsiasi, basterebbe sfocare all’estremo il proprio sguardo per immaginare nella primigenia fanghiglia da cui tutto prese forma (non me ne vogliano i creazionisti) una molecola neonata disfarsi all’incontro con altra combinazione di elementi, sua antagonista, e ancor prima (non in senso temporale) pensare ad un “quantum” alterato dall’azione di un suo pari.
Il tossico, per farla breve, è la nostra fine, non soltanto nel caso d’avvelenamento. Scampiamo alla fina da tossico soltanto nel caso di morte per traumi spaventosi e repentini; quelli che fulminano all’istante, quelli che, per citare Petrolini, ci fanno morire guariti (o sani).
L’avvelenamento è out. Di moderni ricordo il caso Litvinenko, che annaspò nel suo sudario, avvelenato da polonio 210; agente tossico, radioattivo e incontrastabile.
S’è citato il suggestivo defunto, per sospetti intorno alla dipartita di Berezovsky; tutti nel mondo, odoravo ciò, fremevano all’idea d’una morte per veleno, ma le notizie, poi, hanno indicato quale causa un suicidio per impiccagione; invero è ben più nobile di quello per premeditazione (“che stronca per eccesso di”), ma rimane lontano, per stile, dall’effetto del tossico, autoinferto o meno.
Null’altro s’è saputo in merito ad Arafat, per il quale la moglie insinuò analogo tossico tranello, ma segnalo che all’epoca della partenza del caro Yasser un quotidiano gratuito riportò i bisbiglii intorno alla morte per irradiazione satellitare. Fine importante, avveniristica, neppure Verne mi risulta che ci pensò: il contrario allora del nobile veleno. Per i compatrioti segnalo Sindona, il cui rocambolesco avvelenamento profumò di mandorla e d’impresa di altri tempi. Tutto ciò, lo sottolineo, a dispetto della tragedia. Evito di gironzolare nella storia e nella letteratura; bastano Socrate e la madama Bovary, per celebrare l’arte sublime del tossico.
Il ricorso al tossico è ormai desueto, per gli umani, ma non per me: io vedo chiaramente gli effetti della più subdola delle intossicazioni esistenti in Natura; essa è eterna: l’intossicazione “da Dio”.
Alcuni m’accusano di blasfemia, altri di vilipendio della religione, e io fatico a dare un ordine d’importanza alle due infamanti accuse, in quanto svuotate per me di senso.
Come tutte le intossicazioni, infatti, l’agente intossicante – di per sé – non ha colpa alcuna, per cui non comprendo come si possa perseguire il sottoscritto.
Il cianuro, dall’affabulatore aroma dolce, in sé non possiede cattiveria.
Il cadmio, l’elemento primo, in natura se ne sta impastato con lo zinco; è mattone, inoltre, della dorifora e dei veleni mortali di certe serpi, ma nessun proprio intento omicida lo spinge a nuocere all’essere vivente.
L’amanita phalloides, povera cara, sviluppa il suo ammirevole carpoforo nelle boscaglie; svolge quindi con zelo incondizionato il proprio ruolo di parassita e, in quanto parassita, null’altro ha da fare se non parassitare.
Orbene: quando la famigliola felice vien sterminata dall’amanita citata, per intossicazione che scioglie fegato e reni in poche ore, non vi è colpa nel fungo (a meno che qualcuno scorga immanente nell’esistenza una colpa).
Alla stessa stregua non mi si deve lapidare per aver concepito di descrivere l’intossicazione da Dio.
Per andare al nocciolo, e forse aver salva la vita, ribadisco che chi patisce l’intossicazione, e soltanto lui, ne paga doppiamente il fio.
La prima colpa è l’essersi intossicato, l’atto intossicante, l’incauto errore di raccogliere il fungo mortifero, di passeggiare sul Monte Amiata in prossimità dei fumi assassini, infatuato dai racconti popolari sulle pesanti nebbie tossiche. Esiste anche l’errore (esiste in quanto ente a sé)  di caricare ben bene la stufa, ma senza pulire la canna fumaria e così via…
La seconda colpa (di tipo squisitamente morale) è l’abbassare la guardia rispetto alla possibilità di lasciarsi intossicare.
La seconda colpa, in aggiunta, ha conseguenze gravissime, creando una valanga educativa e generazionale; ci si lamenta di alcune correnti politico-sociali, per esempio, che senza alcun dubbio hanno condizionato e ingrossato la sotto cultura già diffusa, ma pochi mea culpa risuonano, per non aver educato i propri figli a leggere fra le righe degli eventi (dei quali, sia detto una volta per tutte, gli scritti in bianco sono ben più importanti di quelli vergati con inchiostro nero).
L’intossicato da Dio, per spiegarmi prima d’essere raggiunto dalla polizia religiosa, è colui il quale fiuta lo Spirito a chilometri di distanza, come un pluripremiato segugio, e, a differenza dell’osannato cane, che fiuta per cercare, per mangiare, per possedere, per avere un premio rinforzante dal padrone, l’intossicato da Dio fiuta per collocare gli eventi, i concetti, le idee, nell’ascientifica categoria della Spiritualità e affini.
Per essere limpido, l’intossicato da Dio, non fosse per l’esistenza della televisione e del telefono cellulare, potrebbe negare l’esistenza dell’energia, in quanto contrassegnato – come lo Spirito – dall’attributo dell’invisibilità, ed è questo il caso dell’intossicato stolto, che ignora l’esistenza dell’universo matematico.
L’intossicato da Dio, ma istruito, lo si affermi chiaramente, non può considerare come possibile un evento che non sia riconducibile ad un modello matematico ben collaudato, anche se – fra questi intossicati – taluni ammettono che l’esistenza di un fenomeno,  o la non esistenza dello stesso, abbiano il medesimo valore di fronte al vuoto sperimentale (che, pare, sia una condizione meramente transitoria).
Questa casistica d’intossicazione, al pari delle altre, non ha un bersaglio principe; capita che le intossicazioni trovino un terreno favorevole, ma non per questo, delle stesse, si possono esaltare l’arguzia e la pretattica. Non si esalta, al pari, il granello di senape che cade nella terra umida e grassa, germogliando. Certo non alludo a volontà superne, poiché tali riferimenti, trattando della divina intossicazione, renderebbero insensato l’intero mio discorso.
Un seme cade in un luogo, oppure in altro, unicamente per combinazione d’infiniti calcoli fisici, e punto.
Rimanendo al seme, ed alla ragione prima della traiettoria del suo volo, s’incontra l’intossicato che risponde sciattamente: “Io non ci credo a quelle robe lì….”, ma pure colui il quale può sciorinare un saggio di epistemologia a supporto dell’apparente scetticismo (apparente, poiché termine da adoperare con estrema cautela).
Insomma, per concludere: l’intossicato da Dio è quel soggetto il quale, quando annusa puzzo d’impalpabilità, ripone l’ipotetico evento nello scatolone delle bufale,spesso nell’attesa che altri stabiliscano la verità.

Upload, novembre 2013: s’è diffusa la voce che l’analisi dei resti di Yasser faccia pensare ad un avvelenamento da Polonio.

 
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Scomparsi

Foto di Linda Dé Nobili


Ancora oggi molti uomini guardano con disprezzo o, i più cesellati, con doppiezza, gli esseri australi che s’affacciano nel nostro mondo, ridicolmente descritto come l’epopee nordiche narrano, popolato da spilungoni biondi, o comunque d’una razza superiore, non soltanto diversa, forse in quanto – per contrasto – boreale.
L’idiozia cosmica di chi abbocca a questi ami è ingrassata anche dall’ineluttabilità dello spostamento delle masse, in questo tempo.
Nel 1300, benché non l’abbia vissuto, pare fosse complicato traversare il mediterraneo, sfuggendo alla guerra, alla fame o, perché negarlo, alla giustizia.
Allora, persino il tragitto da Milano a Bologna sarebbe durato giorni; giorni perigliosi, per via di briganti e farabutti d’ogni sorta, per la furia degli elementi (che ci vedeva sguarniti d’adeguate protezioni) e per l’inedia che colpiva gli appiedati, quando sia i carri, che i cavalli, terminavano anzitempo il servizio.
Avvenivano poi dei voltafaccia sorprendenti, per cui i propri uomini, a scorta del convoglio, non si peritavano certo di sgozzare i padroni, per la promessa di due denari in più.
In questo traballamento invischiante, una melassa d’instabilità globale, per la quale nulla persisteva in uno stato a lungo (se non le tombe), e dove molte cose non avevano ancora un nome (come osservò sempre lui, l’immenso Marquez),  i malcapitati traditi e dilaniati dalle picche, una volta spogliati di ogni bene, divenivano pasto per gli animali selvatici e scomparivano nel mistero più impenetrabile; come gli attuali scomparsi nell’imprendere viaggi impossibili, per acquistare un pacchetto di sigarette o per fare due passi al centro città.
Oggi giorno, degli annegamenti non si può avere il numero preciso. Il mare, inoltre, non è mai lieve come può essere la terra e consuma le spoglie rapidamente.
I moderni Caronte non lesinano sulla crudeltà, per rendere più stabile la bagnarola, o per liberarla da involucri di carne, ormai svuotati di Vita.
Come scrisse Erri De Luca, quindi,  La terraferma Italia è terrachiusa. Li lasciamo annegare per negare”.
Non c’è altra ragione, a mio avviso, se non la gattopardiana legge, per cui tutto è cambiato per restare uguale.
Sono sempre i sentimenti, che dovrebbero essere governati da valori supremi, che determinano uno stato di civiltà, prima che l’istruzione e la competenza.

 
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Le categorie kantiane

Caffè mattutino. E’ pacifico: il caffè contiene caffeina e favorisce il risveglio. Pare (se ne discute) che favorisca la digestione. Dosi eccessive sono eccitanti. In omeopatia, nel pieno rispetto della grammatica, coffea calma la mente che “galoppa”.
Inoltre: c’è il caffè solubile, una faccenda chimica, squisitamente chimica. 
Io prediligo la moka. Ne preparo una da tre, dopo cena e ne bevo solo un dito. Il restante lo consumo la mattina, freddo. Dopo 3 giorni, se avanzato, vira verso un gradito aroma di cioccolato.
La pressione atmosferica viene vinta dalla tensione del vapore dell’acqua e l’acqua bolle. Infatti non ribollono i laghi, per il momento.
Dal punto di vista d’un candido voltairiano, un poco cresciuto, tutto ciò è chiaro. Per esempio è chiara la ragione sufficiente per cui, se bevuto bollente, il caffé potrebbe ustionare.
Anche io comprendo i meccanismi chimici e fisici conosciuti, cioè le cause e gli effetti d’un qualsiasi evento, dedicando del tempo allo studio. Tempo fa comprendevo anche il fine ed il mezzo, li distinguevo. Poi non più. Mi spiego:  ero in grado di preparare il caffè, ma i ruoli degli attori apparivano immediatamente sfumati, senza un motivo,  e, più m’incaponivo per metterli a fuoco, più si sfocavano. Mi smarrivo in un dedalo di pre e post considerazioni inutili e prostranti
Il caffè fu il primo segnale di questa difficoltà insormontabile nel comprendere le relazioni della realtà. Il secondo segnale fu l’indifferenza verso il mio “regolo d’ingenuità”. 
E’ un regolo in legno di 20 centimetri, con 20 tacche graduate e imperniato al centro d’una cornice 30 per 30; il perno può scorrere in otto direzioni che s’irraggiano dal centro. E’ semplice. Inquadrando una persona a distanza (il viso deve rientrare nella cornice) si deve fare in modo che lo zero della scala sul regolo coincida con la radice del naso. A quel punto, ruotandolo, si annota la distanza fra la punta del mento e la radice del naso.
Poi, lo zero lo si colloca all’estremità di un occhio e si annota la distanza fra le due estremità degli occhi.
Infine, con lo zero all’estremità di un occhio, si annota la distanza fra questo e la punta del mento. Con un semplice calcolo (elaborato ispirandomi a Rodin) si ottiene un risultato che, nel continuum dell’ingenuità (da zero a dieci, da Remedios la Bella, la tabula rasa, a Mata Hari), quantifica l’ingenuità dell’esaminata. Ovviamente la scelta dei rapporti da misurare è frutto di millenari studi fisiognomici, che assumo per validi dogmaticamente.
E‘ fondamentale conoscere il grado d’ingenuità, perché fra gli ingredienti della grazia femminile c’è sempre una presa d’ingenuità. Questo lo ricordavo, ma non comprendevo più quale fosse il fine di questo mezzo e, ne consegue, non individuavo il mezzo, né il fine.
Orbene, dicevo: il caffè ed il regolo, calati nel fiume dell’esistenza, non li compresi più. Da un giorno all’altro, così. Le ragioni prime volatilizzate.
Dopo queste realtà, altre mi si svuotarono fra le mani, realtà il cui ruolo (lo deducevo osservando il prossimo mio) pareva inossidabile. L’automobile per esempio, ma anche le ciabatte, il quadro a vista, la radiosveglia che proietta le ore sul soffitto, la fedeltà perfetta del cane, la putrefazione che genera gigli, i polmoni che scoppiano dopo una corsa ed il gusto insaponato del coriandolo. Smisi persino di fumare.  
Potete immaginare quanto interesse suscitai per la scienza. Dopo classiche visite neurologiche passai attraverso macchinari dal ronzio trapanante, rigorosamente sedato. Venni addirittura spedito a New York, per essere scandagliato da un macchinario sperimentale, una tomografia avveniristica, che produsse una sequela d’immagini multicolori del mio cervello. Nulla…
Anche gli strizzacervelli, dopo avermi mostrato una collezione inesauribile di macchie simmetriche, dopo ore di ipnosi, dopo giorni e giorni di libere associazioni, conclusero che ero sano di mente.
La situazione divenne per me ingestibile. Immaginate d’essere a tavola: ci si alimenta (il che è un bisogno) con del cibo. Quale fosse il fine, quale il mezzo… io lo ignoravo. Rammento che una sera, grave passo falso, ci ragionai sopra. Conclusi che, allora, divorando una versione economica dell‘Aretusi, avrei superato brillantemente l’imbarazzo.
Mi salvò sempre il dubbio che, dilatandosi come una bolla, inglobò l’Aretusi non appena lo impugnai e con esso tutti i libri esistenti; persino quelli che non avevo mai letto e, temo, anche quelli dei quali non conoscevo l’esistenza.
Un caro amico, allora, tornato da Parigi, ci ritornò subito accompagnandomi allo studio filosofico del Dottor Rabroux, non lontano dalla Grande Moschea. “E’ l’ultima moda, suvvia!” mi rincuorò in aereo il mio accompagnatore. Il concetto di “moda” mi procurò un attacco di panico.
Il Rabroux disquisì a lungo col mio amico David (io non ne ero in grado) e concluse, con indisponente sicumera, che il mio era un raro problema di categorie Kantiane. 
Causalità e azione reciproca. Questi due cassetti della mia anima erano bloccati.
Io, potete ben capire, non compresi nulla di quanto il filosofo andava raccontando. Il concetto di cassetto, per giunta, considerando anche la valenza simbolica del termine, mi era di impossibile collocazione.
Ricordo solo che mi praticò la “mossa di Semont”; si narra che l’applicazione della mossa nei casi di categorie kantiane bloccate fu ipotizzata da un fiosioterapista esoterico (che non vuole dire nulla), un essere vivente poco diffuso persino a Parigi, più raro del domatore di topi e del consulente finanziario-medium; questi – per onestà intellettuale – domanda agli spiriti previsioni sull’andamento di borsa. 
Pare che la mossa di Semont sia utile nei casi di labirintite.
Il concetto, per il mio amico David, fu semplice da comprendere: diamo uno scossone, può essere che i cassetti ricomincino a scorrere lungo i propri binari.
La mossa mi procurò nei giorni a venire una violenta labirintite.
Rinchiuso in casa vagavo a tastoni, come un cieco m’appoggiavo persino ai fiori del bagno. Il contatto con qualcosa di statico mi ridonava equilibrio.
Dopo giorni d’incessante burrasca, le mie acque si placarono.
David vinse la mia ritrosia e mi accompagnò in un lurido pub.
Fu lì, quella sera, che un’avvenente donna mi fissò con sfrontatezza. I suoi occhi erano neri come la nigredo, perciò scintillavano promettenti faville; avevano la forma della più classica delle mandorle… Non v’era dubbio alcuno.
Istintivamente cercai nel borsello il mio amato regolo. Vi era ingenuità nella fanciulla? Il regolo giaceva polveroso nella libreria, fra due trattati di lettura del viso.
In quel preciso istante, figurandomi il regolo a riposo fra i libri, compresi d’essere tornato normale.
Fu la mandorla, che nulla ha da spartite con l’occhio, se non metaforicamente, che mi confermò d’essere tornato alla ragione.
Quale sia il fine e quale il mezzo nei rapporti molteplici fra uomo e mandorla, benché sia vana speculazione, dev’essere ben chiaro nella mente, per potersi permettere la manipolazione simbolica d’un vocabolo.
Quando tornai a casa, la sera stessa, tutto mi era chiaro. Finalmente, dopo mesi da candido errante, tutte le certezze erano affiorate dalla ribollita della mia anima.
Finalmente tornai alla mia consueta ottusità, alle mie inattaccabili certezze, all’equilibrio che mi permette di gettare al vento i miei giorni. 
  

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Un calabrone

Fra tutti gli insetti, anche il calabrone viene attratto, la notte, dalla luce artificiale.
Un calabrone, così minaccioso (tronfio, pieno della sua nomea), entrò in casa mia nel buio estivo e puntò immediatamente la luce che proveniva dal bagno. Dal punto d’entrata del calabrone, quella luce era poco visibile; dalla porta del bagno promanava una debole pennellata di luce gialla, che moriva nel buio.
In bagno si produsse in un numero di alta scuola naturale: s’appiattì, inspiegabilmente, entrò nella lampada, sottile come una tenia s’insinuò nei tre millimetri di spazio fra il soffitto e l’applique.
Ivi incontrò la lampadina incandescente, l’esca alla quale aveva così scioccamente abboccato.
Con grande stupore notai che non riuscì a ripetere il numero, alla rovescia. Non s’appiattì per fuggire, no. Più tardi, riflettendo, conclusi che il pensiero non l’aveva neppure sfiorato.
Iniziò, invece, a girare in cerchio, attorno alla lampadina, all’interno della lampada.
Il suo movimento circolare non venne accompagnato da una costante rotazione intorno al suo stesso asse.
Il suo incedere fu nervoso, rapido, cocciuto.
Il ronzio, sul quale parevano scivolare i suoi rapidi movimenti, lo faceva rassomigliare a qualcosa di meccanico, ad un minuscolo capolavoro.
Lo osservai per qualche minuto, poi me ne andai.
Proseguì per qualche ora, poi il ronzio si fece intermittente, fino a sparire.
La mattina seguente lo vidi stecchito, un poco cotto; mi domandai se fosse giusto che un insetto (benché tale) schiattasse ingannato da una fonte di luce che non esiste in natura.
Il fatto è che non serve analizzare i ghiacci del polo ed elencarne gli inquinanti, per capire quanto siamo nocivi.
L’applique, tra l’altro, se ne stava attaccata al soffitto da anni, con della semplice colla. Dico io… ma è normale?

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Barber Shop

G.D. era parrucchiere e cantante a tempo perso.
All’epoca, durante la quale ero un giovane scioperato, G.D. mi sembrava soltanto un poco ebete, anonimo nella sua popolarità paesana; ora, quando lo penso, rievoca in me il Giovanni telegrafista di Jannacci, ma non saprei dire perché. Forse è soltanto l’effetto di simpatia fra le iniziali dei due.
Quindi: G.D. assurse agli onori delle cronache di paese, quando venne colpito da grave “fatto circolatorio” e stramazzò a terra nel mezzo d’un taglio di capelli.
Lo fece con discrezione, essendo anonimo nella sua popolarità. Probabilmente il soffuso tonfo di G. fu coperto dalla radio; sta di fatto che il cliente non comprese subito la gravità dell’accaduto.
Quando alzò gli occhi, dopo un attimo di distrazione, non vide G. nello specchio di fronte a lui. Lo chiamò con insistenza, poi si alzò stizzito e lo scovò dietro la poltrona, sdraiato, con gli occhi sbarrati.
Dopo aver chiamato i soccorsi, subì l’umiliazione del dover attraversare la via principale del paese col taglio incompiuto, per recarsi dall’altro parrucchiere (ne contavamo ben due), il quale ultimò il lavoro interrotto da G., solo per non finire sulla bocca di tutti; lo ultimò con sufficienza.
Da G.D., speso incontravo il parroco. Il parroco (pace all’anima sua) era un sosia di Stan Laurel. Il viso era lo stesso, ma impiantato su di un corpo imponente. G.D. gli tagliava sempre i capelli a spazzola, consolidando la somiglianza col grande comico.
Il parroco (sempre pace all’anima sua) emanava una spiritualità neutra, incolore. In me suscitava il dubbio che la sua spiritualità non servisse neppure a sé stesso.
Quando mi vedeva, attaccava bottone sempre con la vacua considerazione: “Ciao Tosetti, pensa che la mamma di tua nonna faceva Ferrari, come la mia mamma…”…
Un giorno entrai da G.D., per attendere un amico che si stava affidando alle sue forbici. Mentre il parroco mi confessava la solita idiozia della mia bisnonna e di sua madre, notai che G.D. aveva ormai ridotto il mio amico in un perfetto imbecille, producendosi in un arcaico taglio da paggetto.
La madre del mio amico, quando lo vide, lo rispedì immediatamente dall’altro parrucchiere, commentando “te paret un scemu!”.
G.D., dopo il grave “fatto circolatorio”, si riprese vagamente e proseguì nella professione di parrucchiere, praticandola molto lentamente, fino al giorno in cui stramazzò senza più rialzarsi, lasciandoci l’ultima opera incompiuta, portata a termine dal concorrente che, curiosamente, anni dopo se ne andò per il medesimo “fatto circolatorio”.
Il parroco li aveva anticipati nel regno dei cieli, sempre che l’avessero riconosciuto al suo arrivo.
Il mio amico, nel frattempo, si perse fra i gazebo dei duri padani… insomma, di questi rimango solo io apparentemente vivo, perché non dovrei essere né morto, né morto vivente.

 
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Crime

Durante il tempo speso davanti alla televisione, tentando di lambiccare tutto un insieme di fattori, lambiccamento che dovrebbe poi dare come prodotto la realtà, che sia animata o inanimata, ho notato che i palinsesti pullulano di un’infinità di serie TV del genere in oggetto.
Scrive Magris, riprendendo chissà chi, che la metafisica è stanziale, sta a casa, non viaggia, quindi io rispetto la regola.
Tornando ai crimes, penso siano per lo più realizzati negli States; alcuni sembrerebbero di ottima fattura, dalle sceneggiature alle riprese. Ciò è confermato dagli esperti, siano essi navigati consumatori, che tecnici del settore.
Non nego che, sporadicamente, qualche espisodio mi abbia rapito… Per quanto possa valere, quindi, confermo la bontà del materiale.
Il punto è altrove: fra i prodotti che cerco di riprodurre, per accertare la correttezza del lambiccamento, vi è anche un mio ex amico, ivoriano, del quale non faccio il nome, e della cui condizione di ex non mi dolgo.
Lui, anni fa, commentava in un italiano stentato e depunteggiaturato: “Qui sempre televisione rapina sparare nonna eh eh eh eh ma che cazzo frega…”.

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L’hanno castrato male

Ricordo bene che guardai il mio amico con un certo sussiego, quando giustificò il comportamento del suo gatto con l’affermazione: “L’hanno castrato male…”.
Già, perché quel gatto, malgrado sfornito da tempo di zebedei, con la calda stagione, insisteva pervicacemente a miagolar sofferenza, se rinchiuso in casa, ad ogni lancinante mugolio di qualche gatta.
A nulla valse il mio tentativo di spiegare che i caratteri sessuali secondari bla bla bla bla… E che, qualora fossero intervenuti tardi a potar la pianticella, Farinelli non avrebbe incontrato grande fortuna.
E’ meraviglioso, questo luogo comune, il “l’hanno castrato male…”; in che senso? Come? Lasciando inavvertitamente qualche cellula dei testicoli? Oppure facendolo distrattamente, fumando una sigaretta? Una canna? Sciorinando logore battute a sfondo sessuale? Con una mano in tasca? Io proprio non capisco quel “male”, anche perché una castrazione eseguita male mi rimanda unicamente alla morte dell’innocente micio.
Tempo dopo, una donna corpulenta e annoiata catturò e fece castrare il mio gatto, quando l’ignaro felino contava già sette anni… Come castrare Farinelli intorno ai cinquanta… grossomodo!
Lo fecero “male”, appunto, perché tornò sanguinante dallo scroto, ma sopravvisse.
Lo fecero “male”, forse aveva ragione il mio amico, perché ieri – al primo accenno di calore delle gatte – il miciastro è sparito dopo cena, trascorrendo la notte fuori, come ai tempi gloriosi della fertilità.
Lo fecero “male”, è vero. “Male”, come tutte le cose realizzate fuori tempo.

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La festa della donna lupo

Una carissima amica mi disse, vedendomi sofferente: “I poeti soffrono per una donna o per le stelle…”. Aveva ragione, anche perché in quel periodo mi coricavo sulla griglia della velleità poetica.
Allora: in quel periodo di sofferenza, non certo per le stelle, mi iscrissi ad un corso di ballo latino-americano. Per me il ballo e l’agonia sono la stessa cosa.  L’unica differenza è che l’agonia la si passa in una posizione comoda.
Mettemi in mezzo al campo, con San Siro pieno, e sarei in grado – al microfono – di intrattenere a lungo il pubblico, senza problema… 
Ma il ballo, no.
Lo feci per vincere il dolore, con un dolore pari o maggiore… 
Che gran fesseria!
Devo riconoscere che affrontai con disinvoltura la bachata, vincendo la mia mortale vergogna; d’altro canto è un ballo semplice.
Le lezioni, poi, si addentrarono nella salsa. Una tragedia. Impossibile per me superare l’ardua prova. La frustrazione scorreva nelle mie arterie, inquinandomi l’anima.
Fu allora che conobbi la donna-lupo. Povera ragazza… Simpatica, gentile, ma il naso era un muso da lupo.
Cercava di puntarmi, voleva ballare sempre con me, malgrado la mia inettitutine, desiderava incoraggiarmi… E non solo!
Io la guardavo, mentre morivo dentro, dentro la salsa intendo, e pensavo: “Povera… ricordi proprio un lupo…”.
Tutto ebbe fine, grazie a Dio. Non riuscii a reggere l’umiliante salsa e abbandonai le lezioni; non rividi più la donna-lupo, non conobbi mai il suo nome.
Vorrei farle tanti auguri, anche se in ritardo, per l’8 di marzo: che il muso ti sia lieve, gentile donna lupo!

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Scientificamente parlando…

Sotto la superficie di quella che, comunemente, viene definita “scienza”, scorrono ed operano diverse forze.
C’è un surriscaldamento causato dal lavorio di “tutti i neuroni del mondo”, quindi esistono correnti magmatiche e fluide. Questo “furore bruciante”, di fatto, viene prodotto anche da una sorta di fiamma che non brucia, uno stomaco con vaga eco alchemica e spagyrica.
E’, ovviamente, lo stomaco della scienza, che smonta gli eventi e li rende assimilabili e digeribili, li trasforma. Cè poi la peristalsi, che  segue la digestione di cui sopra.  I miei sono solo esempi rozzi, metafore banali, dettate anche dalla fretta… 
E’ però tutto bello, questo, è meraviglioso insomma, da “OhWow!” all’americana.
Ci sono però dinamiche e forze che nulla hanno a che vedere con questa meraviglia; sono forze di tipo “sociale”.
Di queste, quella perniciosa è identificabile nella forza del “rispetto reciproco”. Questa forza non sottende (come si potrebbe pensare) due punti della superficie che siano in fase di sviluppo, oggetto di dibattito, ma due punti già consolidati, accettati.
La forza sociale del “rispetto reciproco” fa sì che, per una realtà dimostrata scientificamente (con tanto di pubblicazioni e bla bla bla) un esponente di questo mondo non prenda audaci decisioni dettate dalla propria esperienza,intuito, intelligenza, osservazione, in quanto in contrasto con l’ordine costituito, col triplo effetto del rispetto delle idee altrui e del proprio deretano (non si rischia), a discapito del prossimo e della verità (terzo effetto).
Siccome, purtroppamente, non sono troppo ignorante (un poco, ma non troppo) e neppure troppo insipiente (un poco, ma non troppo), ergo, questi signori, per quanto mi riguarda, se ne potrebbero anche andare a*******o.
Cioè, comprendo le conseguenze delle forse sociali, ma comunque se ne potrebbero anche andare a*******o. Non mi avrete mai… Ecco…

P.S.: l’immagine non c’entra nulla, ma è bella.

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